Quasi tre ore di durata, trenta minuti in più di Quei bravi ragazzi e trenta in meno di The Irishman: Casinò, sedicesimo lungometraggio di Martin Scorsese uscito esattamente un quarto di secolo fa, fino al 2019 è il capitolo finale della trilogia della malavita dell’autore newyorkese, cominciata nel 1973 con Mean Streets e proseguita nel 1990 con Quei bravi ragazzi. Fino all’anno scorso, appunto, perché l’arrivo del funereo The Irishman ha sparigliato le carte della filmografia di Scorsese, sottraendo proprio a Casinò l’insegna di riflessione ultima del regista sul mondo dei gangster, ed allontanandosi in modo radicale dal consueto approccio scorsesiano alla materia. Venticinque anni dopo e al cospetto dello strappo in avanti di The Irishman, l’importanza e la bellezza di Casinò sono intatte e rinnovate.

Siamo oggi di fronte ad una nuova trilogia, puramente mafiosa, sulla quale - da Quei bravi ragazzi a Casinò a The Irishman - è scritta l’evoluzione del regista e della sua idea di cinema. Se in Quei bravi ragazzi Scorsese consegnava il film al racconto in voce over del suo spericolato protagonista e in The Irishman si scopre disposto a chinare la testa di fronte a qualcosa di più grande, la morte, Casinò è l’affermazione della sua autorialità. Complesso, sgargiante e verboso come mai, il film è il trionfo della maturità stilistica del regista e un atto di fede compiuto per la narrazione cinematografica.

Si diceva della voce over di Henry Hill in Quei bravi ragazzi: in Casinò le prospettive raddoppiano. E strabordano. I primi 40 minuti del film sono letteralmente invasi dai racconti in voce over dei due protagonisti, Sam (Robert De Niro) e Nicky (Joe Pesci), narratori onniscienti ed incontinenti la cui urgenza di dirci tutto -l’uno dell’altro e ciascuno di sé- precorre dal primo istante la fine rovinosa della loro storia. Lo stesso fa Scorsese, che orchestra d’anticipo non solo le loro torrenziali confessioni, ma anche la propria, mostrandoci ancor prima dei solenni titoli di testa di Elaine e Saul Bass il protagonista saltare per aria con la propria macchina.

La storia, dunque. È quella di due amici, lo scommettitore Sam “Asso” Rothstein, posto dalla mafia italiana di Chicago alla direzione di un grande casinò di Las Vegas negli anni ’70, e del suo braccio destro ed armato Nicky Santoro, spedito dal clan nella città in mezzo al deserto del Nevada a sbrigare le faccende più losche per conto di Sam, e della loro presunzione di governare come dei un impero di soldi e crimine dalle fondamenta d’argilla. Ed è anche la storia del loro desiderio verso la stessa donna, la futura moglie di Sam, amata senza speranza dal primo e guardata con lussuria dal secondo, figura disperata e priva di vita propria che valse a Sharon Stone nel ’96 la candidatura all’Oscar per la migliore interpretazione femminile.

Lo stile, poi. La macchina da presa in Casinò è dappertutto, gira ovunque, con angolazioni oblique e trasversali e rovesciamenti di 180 gradi. Accelera, rallenta, si avvicina a qualcosa o qualcuno e se ne allontana immediatamente, passa da un dettaglio all’altro e da un dettaglio ad un piano lunghissimo e ritorno in pochi secondi. Si insinua tra i personaggi e nei luoghi, compie piani vertiginosi sul denaro nella sua circolazione sulle macchine del casinò e in volo sul deserto, sulle note tristi del Tema di Camille da Il disprezzo di Godard.

Si installa all’ultimo piano del casinò per riprendere dall’alto la vita che vi scorre sotto (“l’occhio di Dio che vede tutti noi”, spiega Asso) e, nelle parole di Emanuela Martini, “è instancabile, mobilissima, capace di tutti i trucchi, si concretizza in una composizione dai lineamenti percettibili per poi riesplodere in una gimcana di colori, musiche, grida, dadi, dita spezzate, omicidi, gioielli e insegne al neon. Segue ormai esclusivamente la scansione del cervello di Scorsese”.

Sì, il cervello dell’Autore. La cinepresa scorta quello e nient’altro in Casinò, perché è lui a dominare ogni cosa, concedendo poco al suo rapporto emotivo con i personaggi e tutto a quello intellettuale con la loro tragedia. Che è il fallimento di un miraggio, quello di una Las Vegas emanazione del selvaggio West in cui è incastonata, e dei selvaggi Stati Uniti che formulano orgogliosamente il loro sogno nell’opportunità di fare qualsiasi cosa e lo sgretolano con le loro stesse mani.

“E questo è quanto”.