Dite il suo nome tre volte e lui apparirà. Ditelo due e, beh, lo spirito del primo film verrà raddoppiato, nel vero senso della parola. Scoprirete così che non si è mai trattato di continuity, ma di Beetlejuice al quadrato. Un’amplificazione, più che un seguito, in una spirale vorticosa di suggestioni. L’agognato giro al luna park dove la nostalgia non tende agli eventi del passato (spesso edulcorati dal nostro costante bisogno di tornarci), ma a certe inequivocabili atmosfere. Perdute e ritrovate, forse irreplicabili, ma che vale la pena esagerare con l’occhio di chi non vuole più relegarle a oggetto da museo.
“Abbiamo concordato: niente Disney”, lo dice l’agente immobiliare Jane Butterfield (Amy Nuttall) a Lydia Deetz (Winona Ryder) mentre si straparla di costumi di Halloween. E non è l’unica stoccata più o meno esplicita che Tim Burton assesta all’Impero in Beetlejuice Beetlejuice (A.D. 2024). Dopo le (denunciatissime) sofferenze creative e i parallelismi con il suo Dumbo (anche il regista di Burbank si è sentito sfruttato da un circo produttivo), tornare al suo primo vero lungometraggio sembra la scelta più… giusta.
Non ci sogneremmo mai di ignorare Pee Wee’s Big Adventure (1985), ma siamo consapevoli che Beetlejuice del 1988 sia il suo autentico debutto sul grande schermo, la commedia horror “per tutti” in cui vedere nitide le ragioni delle sue invenzioni. E non possiamo dimenticarlo, non più: prima ancora che regista, Tim Burton è stato un artigiano.
Che il suo immaginario da Alice in Wonderland (2010) in poi fosse ormai diventato un pezzo di storia del cinema (e basta) — un cervello da esposizione, se pensiamo alla celebre mostra — era un’ipotesi ormai interiorizzata anche da chi (come il sottoscritto) non ha mai smesso di amare, seguire, sperare, credere. Ma lasciamo pure la fede (quella cieca) ad altri culti: il punto è che l’importanza industriale di Tim Burton come autore “pop” è talmente imprescindibile che ha fatto letteralmente male guardarlo sacrificarsi sull’altare di una progettualità fredda, impersonale.
Ma che gioia è ritrovare uno sguardo libero — soprattutto, libertario! — in Beetlejuice Beetlejuice? Attenzione: non si tratta di rivedere ciò che (eventualmente) abbiamo amato, ma di riconoscerlo. Certo, ripescare dal cilindro quel mondo bizzarro significa tornare all’estetica che sul finire degli anni ‘80 rivelava le sue (gargantuesche) possibilità, ma il sequel non si limita a questo. C’è molto di più. C’è la follia (al quadrato) e c’è il gioco. Ciò che nel primo capitolo veniva moderato con intelligenza da un autore che andava a conquistarsi un posto nel mondo qui non necessita di freni. C’è un ritmo convulso, scatenato, indemoniato, in questo Beetlejuice.
Insomma, una rievocazione del “bio-esorcista” può solo rivelarsi per quel che è: un pretesto, anzi, uno studiatissimo scherzo. Qui i personaggi vengono moltiplicati esattamente come le gag, il dark humour, il cinema stesso, che passa dal gotico espressionista al musical, dal teen movie all’orrore erroneamente definito “di serie B”. Come l’omaggio diretto a Mario Bava, più una sequenza (in italiano) che sembra fare il verso a La maschera del demonio o a I lunghi capelli della morte. E più di un pensiero va al compianto Larry Cohen quando risuonano echi di It's Alive in certi incubi di… maternità.
Winona Ryder torna (letteralmente) nei panni di Lydia Deetz, un misto tra Oprah e Vampira, che ha fatto del suo interagire con i fantasmi una professione televisiva. C’è Catherine O’Hara nel ruolo della matrigna di Lydia, Delia, se possibile ancora più sopra le righe. A rispolverare il completo a righe di Betelgeuse c’è ovviamente Michael Keaton, magnetico e incontenibile, al quale bastano venti minuti di girato per bucare lo schermo (esattamente come nel primo film). Non si vedono i coniugi Maitland (Alec Baldwin e Geena Davis), ma c’è un simulacro di Charles Deetz (Jeffrey Jones). Per onor di cronaca: l’attore è vivo e vegeto, ancora alle prese con i suoi reati sessuali. È quindi abbastanza naturale che al suo personaggio venga destinata una risolutiva decapitazione (ispirata a un sogno di Burton e giustificata, neanche a dirlo, con una sequenza animata).
Ma ci sono anche Justin Theroux, Willem Dafoe, Danny De Vito, Burn Gorman — tossici, ridicoli, esilaranti: perfetti — e Jenna Ortega, burtoniana per vocazione ben oltre la banale, non proprio riuscita, serie Netflix (Wednesday, 2022). La ricostruzione del corpo di Monica Bellucci nei panni della belle dame sans merci è già classico — nell’universo di Tim Burton, nessuna lettera d’amore conta quanto il ricucimento della donna amata sulle note di Tragedy dei Bee Gees — e il mondo dei morti è sempre più vivo di chi crede di essere vivo.
Nessun personaggio è superfluo in questo montaggio serrato che fa di Beetlejuice Beetlejuice un prodotto che punta a un delirio organizzato, finalmente non innocuo, che se ne frega bellamente delle derive contemporanee. E che, anzi, finisce per sanzionarle con un’ironia più dissacrante del solito.
In Beetlejuice Beetlejuice, a ben vedere, non c’è “fan service”, ma un grido di cinematografia primordiale (nel senso di tecnica pura e manualità), molto consapevole del tempo che passa. C’è lo spirit(ell)o di un regista bambino che sa di non esserlo più, ma che è pronto a dar voce a tutti i suoi istinti, one more time with feeling. Un bambino che torna a divertirsi con le sue figure grottesche e con la stop-motion (qui in misurato dialogo col digitale), ma che confeziona un grande — ebbene sì — film di intrattenimento. Un film che solo un illusionista esperto, consapevole di quanto possa essere magico il cinema, è ancora in grado di fare.
I trucchi del mestiere si mettono al servizio di un esorcismo su più livelli, una parata di freak — ognuno con un sensibile carico di solitudine e risentimento — e creature che danzano tra la vita e la morte nel tentativo di valorizzare l’eredità del trauma. Esattamente quel che fa Tim Burton con il suo, irrimediabilmente suo, Beetlejuice Beetlejuice: prendere in corsa il Soul Train per riscattare la propria anima. Che è poi quella di tutti gli emarginati che sanno prendersi gioco, con serietà assoluta, della propria inguaribile malinconia.