“Essere per cinquant’anni il rappresentante privilegiato di una minoranza oppressa, in un mondo dove celebrità e supremazia appartengono ai bianchi, senza mai perdere l’equilibrio morale, psicologico ed emotivo, dev’essere stato un ruolo difficile da interpretare e da sopportare. Dovremmo essere grati a Sidney Poitier anche solo per aver portato il fardello di un compito impossibile, con grazia eccezionale, e per aver incoraggiato milioni di uomini rappresentando la bellezza e la speranza al cospetto della disperazione, con grande dignità e coraggio”. Le parole dense di ammirazione per  il noto interprete afroamericano sono di Peter Bogdanovich – scomparso il giorno prima dell’attore che diresse in To Sir, With Love II (1996), tv-movie prodotto dallo stesso Poitier per la CBS sequel del noto La scuola della violenza (James Clavell, 1967).

Difficile esprimere meglio l’impatto che Sidney Poitier ha avuto nel panorama statunitense dagli anni Cinquanta, quando coi suoi personaggi ha contribuito a scardinare gradualmente i presupposti iconografici hollywoodiani legati ai neri. Come Jackie Robinson per il baseball, Poitier è stato il primo attore afroamericano a rivestire ruoli da protagonista a Hollywood. La star nera per antonomasia del cinema nazionale, premiato da un successo duraturo e trasversale che ha superato la barriera del colore quale espressione di quel pensiero progressista che negli stessi anni stava prendendo piede nella società e nella cultura americana.

Nato casualmente a Miami nel 1927 da una famiglia di agricoltori bahamensi, Poitier cresce a Nassau fino a 15 anni quando torna negli Stati Uniti con il fratello maggiore e, dopo un’adolescenza di espedienti, appena maggiorenne avvia la carriera teatrale all’American Negro Theater dove è notato dal produttore cinematografico Darryll Zanuck che lo scrittura come co-protagonista assieme a Richard Widmark in Uomo bianco, tu vivrai! (Joseph Mankiewicz,1950). È il primo dei numerosi buddy movies interrazziali che faranno la fortuna di Poitier, film che fungono da blando antidoto alle tensioni etniche ma comunque sollecitano a guardare in modo diverso tali questioni, incentrati come sono su relazioni più o meno forzate tra bianchi e neri in cui a spiccare è la figura afroamericana.

Giovane, colto, educato, raffinato, intelligente, di bell’aspetto pur se privo di qualsivoglia sex-appeal – ancora impensabile per un nero nella Hollywood coeva – portatore dei valori di una borghesia americana in evoluzione: un’immagine rassicurante che ne fa una sorta di doppio opposto della controparte in un connubio politicamente corretto tra il trattamento di tematiche spinose e una rappresentazione accettabile delle stesse. Le differenze sono praticamente annullate pur se l’afroamericano resta regolarmente “spalla” del bianco, suo funzionale mezzo di salvezza (il film di Mankiewicz), riscatto (Nel fango della periferia, Martin Ritt, 1957) o riuscita nel proprio intento (Il seme della violenza, Richard Brooks, 1955 o La parete di fango, Stanley Kramer, 1958 per cui Poitier fu candidato all’Oscar come Miglior attore – la prima volta nella storia del Premio per un interprete non bianco).

Attento alla scelta dei propri ruoli, Poitier è stato da sempre l’artefice principale del suo personaggio. Rifiutando parti redditizie ma poco edificanti (quella andata a James Edwards in La città del vizio, 1955 o ben più tardi quelle di A spasso con Daisy, 1989 e Le ali della libertà, 1994 passate poi a Morgan Freeman), preferisce cimentarsi in ruoli più difficili ma che fungano da esempio per la comunità nera. È il figlio illegittimo del bianchissimo Clark Gable ne La banda degli angeli (Raul Walsh, 1957), il fedele e retto protagonista di Porgy & Bess (Otto Preminger, 1959), il giovane proletario desideroso di riscatto in Un grappolo di sole (Daniel Petrie, 1961), lo zelante operaio de I gigli del campo (Ralph Nelson, 1963), ruolo che gli valse l’Oscar come Miglior attore – la prima volta per un nero in quella categoria, a pochi mesi dall’omicidio del Presidente Kennedy: quasi una simbolica apertura a un cambiamento inarrestabile.

Il successo di Poitier si protrae per tutto il decennio successivo, in cui recita anche come unico protagonista associando la sua immagine al quella del “buon nero”: non più il vecchio Zio Tom, ma  rappresentativo di un ceto ormai inserito appieno nella società bianca che per questo riesce sempre a superare le altrui ritrosie iniziali e raggiungere i propri scopi. Nel già citato La scuola della violenza, La calda notte dell’Ispettore Tibbs (Norman Jewison, 1967) – in cui per la prima volta un afroamericano reagisce all’aggressione di un bianco – o Indovina chi viene a cena? (Stanley Kramer, 1967), Poitier incarna il modello di nero integrato, risultato di una lotta ferma ma pacifica.

I suoi personaggi sono propensi alla tolleranza e all’accettazione reciproca, più vicini alla politica di Martin Luther King Jr. che a quella di Malcolm X, posizione che in quegli anni tumultuosi procura all’attore numerose accuse da parte dei militanti neri più oltranzisti di eccessiva accondiscendenza verso il sistema dominante. Ma il modello di afroamericano rappresentato da Poiter non fa che favorire il suo successo, rendendolo in definitiva una figura centrale del nascente star system multirazziale statunitense.

Forte del suo successo, dal 1968 partecipa a quasi un film all’anno molti dei quali, sulla scia della blaxploitation, sono diretti da lui stesso come il western Non predicare… spara! (1972), il romantico Grazie per quel caldo dicembre (1973) o la commedia all-black Uptown Saturday Night (1974) al fianco di Harry Belafonte, Bill Cosby e Richard Pryor. La carriera di riconosciuto e celebrato attore e quella di regista si alternano fino agli anni Novanta.

Oltre a interpretare ruoli di primo piano in cast con soli attori bianchi – Sulle tracce dell'assassino (Roger Spottiswoode, 1988), Nikita – Spie senza volto (Richard Benjamin, 1988), I signori della truffa (Phil Alden Robinson, 1992), The Jackal (Michael Caton-Jones, 1997) – Poitier dirige ancora alcune commedie, tra cui la fortunata Nessuno ci può fermare (1980) con Pryor e Gene Wilder e Papà è un fantasma (1990) con l’ormai affermatissimo Cosby. Prima di ritirarsi dalle scene recita in alcuni film televisivi, tra tutti Mandela and de Klerk (Joseph Sargent, 1997) dove interpreta il noto leader sudafricano impegnato contro l’apartheid, esempio di equilibrio, tenacia e determinazione che calza a pennello per l’attore.

Poitier è insignito dell’Oscar alla carriera nel 2002 – ancora una volta la prima star nera a ricevere tale riconoscimento – e nel 2009 riceve la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze degli Stati Uniti per il contributo reso al Paese. Due meritati riconoscimenti a una figura che più di altre ha saputo trasferire nell’universo fantastico del cinema le istanze reali della sua comunità, facendo del mezzo filmico la proiezione in grande di sogni e ambizioni collettive che hanno aiutato l’America a crescere e allargare il proprio sguardo a orizzonti più complessi e sfaccettati.