Molti scrittori, registi ed artisti hanno cercato, negli ultimi anni, di raccontare nel modo più realistico possibile la difficile vita nelle caserme, le umiliazioni subite da coloro che vi ci abitano, le loro fatiche, i loro dolori morali e fisici, la loro ansia e la loro paura. Ma quasi tutti i narratori si sono concentrati sulle figure dei soldati, spesso giovani ed impreparati alla difficile vita che li aspetta, mentre gli ufficiali occupano in molte opere uno spazio marginale, molto spesso fungendo da aguzzini, che hanno il solo desiderio e la sola voglia di umiliare e deridere i giovani cadetti. Questi mostri odiosi mossi da un astio insensato ed inspiegabile acquistano un cuore ed un umanità nella pellicola diretta da John Huston nel 1967 Reflections in a Golden Eye, nella quale uno strepitoso Marlon Brando interpreta l’intransigente e ligio alle regole maggiore Penderton, sposato con la svampita Leonora di Liz Taylor, il cui unico amore sono i cavalli e che tradisce il marito con il suo commilitone Langdon interpretato da Brian Keith. Quando però lo stravagante e taciturno soldato semplice Williams entra inaspettatamente nella vita del maggiore, istinti ed emozioni che egli credeva nascoste e dimenticate riemergono nel suo animo apparentemente inflessibile.
Ho trovato Reflections in a Golden Eye un film complicato, che più di raccontare con chiarezza la sua storia preferisce lanciare allo spettatore intuizioni e sospetti, quasi per non rivelarsi completamente, forse causa gli argomenti “proibiti” e tabù che vengono discussi all’interno della pellicola. Per tutta la durata del film ho aspettato una spiegazione, che mi facesse capire il perché del comportamento inusuale e strano dei personaggi, che mi rivelasse le intenzioni del soldato Williams e del maggiore Penderton, che comincia ad esserne ossessionato e a seguirlo ovunque vada. Ed è proprio nel finale, quando, finalmente, tutto sta per essere svelato, che Huston ci spiazza con un colpo di scena incredibile ed inaspettatissimo, animato da frenetici movimenti di camera e da urla strazianti. Ammetto di essere uscito dal cinema un po’ frastornato: il film finisce senza spiegare niente, la natura dei personaggi non solo non ci è stata rivelata, ma si è pure infittita di mistero. Solo riflettendo e superando lo stupore del momento ho capito che Huston non ha fatto altro che raccontarci meravigliosamente la vita nell’esercito, come nessuno mai ci era riuscito.
La chiave per capire il film è il personaggio di Brando, qui in una delle sue prove d’attore più sublimi, burbero, insensibile e quasi violento all’apparenza, ma che forse riserva dentro di sé un terribile segreto. Più la pellicola va avanti, più ci rendiamo conto che il maggiore Penderton è un uomo debole e succube, sensibile e malinconico. La sua vera natura comincia a venire fuori quando comincia ad essere ossessionato dal soldato Williams, che va in giro a cavallo per i boschi nudo e che ostenta per quegli animali un amore senza pari. Penderton vorrebbe richiamarlo per il suo comportamento, ma non lo fa. È forse innamorato di lui? Attratto da quel giovane apparentemente timido e riservato ma che riesce ad ostentare una sicurezza ed un autocontrollo maggiore di ogni ufficiale più esperto? Nella prima scena del film, vediamo Brando che solleva con sicurezza dei pesi, dandoci subito l’impressione di un uomo forte e dotato di grande disciplina e fierezza. Nell’ultima, lo vediamo appoggiato contro un muro, piangente. Huston con questo film ci palesa la vera natura degli ufficiali e dei soldati, mostrandocene il lato più puramente umano. È mai possibile che l’inflessibile maggiore Penderton sia debole e sensibile come Anacleto, l’effeminato cameriere filippino ai servizi della signora Langdon, nei confronti del quale, per tutto il film, si è fatto gioco e lo ha preso in giro? Sì, è possibile.
Nessun soldato è veramente forte e disciplinato, e si comporta come una macchina senza cuore. Può darne l’impressione, ma la verità, in fondo è un’altra. Non ci sono uomini deboli in caserma, perché sono tutti deboli allo stesso modo, da quello che sembra più pavido a quello che sembra più impavido. È questo che Huston ci fa capire con il suo film, e per questo Reflections in a Golden Eye è forse uno dei film più sinceri sull’esercito che io abbia mai visto. Nel film, coloro che sono capaci di vedere la vera natura degli abitanti della caserma sono Anacleto e Williams, coloro che sono dotati di un occhio d’oro, e forse lo siamo anche noi spettatori, che vediamo il film attraverso un inizialmente fastidioso filtro dorato che rimane sullo schermo per tutta la durata della pellicola. Perché in fondo, come dice Anacleto, mentre presenta il suo dipinto di un pavone con un occhio d’oro: “nel suo occhio vi sono riflesse delle figure esili e grottesche”.
Pietro Luca Cassarino