Molti, troppi film della cosiddetta “Vecchia Hollywood” hanno più volte raccontato lo stesso tipo di trama con lo stesso tipo di personaggi. Troppe volte abbiamo dovuto vedere e rivedere le stesse battute, gli stessi attori interpretare gli stessi personaggi, che cambiavano di film in film, di genere in genere restando però sempre uguali. Primo fra tutti spicca in questo tipico schema di personaggi l’eroe forte, arguto, ironico, intelligente, probabilmente invulnerabile e soprattutto, la cosa più importante, maschio, non nel senso del sesso, ma del comportamento e del portamento fiero, orgoglioso e superiore, a cui è concesso tutto e lamentato niente.
Ed è proprio questo schema, ormai opprimente sia per lo spettatore che, presuppongo, anche per i filmmaker, che viene messo in crisi in quell’opera fondamentale che è A casa dopo l’uragano di Vincente Minnelli, che ha diretto nel 1960 con uno splendido Technicolor. Raccontando la guerra interna alla famiglia di magnati texani Hunnicutt, che vedrà i due genitori separati contendersi come un oggetto il figlio, discutendo su chi abbia più diritto ad educarlo, Minnelli ci dipinge la crisi di un intero mondo, di un’intera società e di un’intera generazione che non è quella del figlio, come qualcuno potrebbe pensare, bensì quella dei genitori, che si “ammazzeranno un po’ alla volta” competendo per capire chi di più riesce a comprendere i bisogni e le richieste della loro prole.
Una generazione la cui inevitabile estinzione porterà al sicuro decesso e sparizione di certezze, schemi sociali, di politiche e di usi così antichi da perdersi nell’inesorabile voragine del tempo. Un intero mondo, durato da millenni, un mondo patriarcale, in cui ciò che conta è la propria forza e non i propri ideali, muore davanti ai nostri occhi, e muore quando Theron, il giovane ereditiere non solo della magione e delle terre ma anche di quel modo di vivere e di pensare, rinuncia a questa sua vita stabilita, dice no a questa società ingiusta e iniqua rendendosi conto delle sofferenze che ha provocato e dei danni che ha portato.
Un rifiuto epocale, epico, che porta al crollo della famiglia e dell’intera società e che vede un damerino, cresciuto nel lusso e servito fin da appena nato, scegliere di lavorare in fabbrica, insieme ai poveracci, insieme ai neri. Theron si sottrarrà ai tentativi del padre di renderlo come lui, rifiuterà l’argomentazione secondo cui, per rispetto alla tradizione, è giusto essere sessisti, classisti, razzisti e maschilisti, è giusto rispettare i maschi da maschi e le femmine da femmine, e cioè i primi come esseri umani ed i secondi come oggetti di piacere e, se non per quello, amebe buone a nulla. Che sia mai che un vero uomo, che un vero maschio, non cresca senza cacciare, violentare e fare a cazzotti. Non è mica una femmina!
E così il litigio di Theron con il padre non può essere rimarginato, non è più possibile una riappacificazione, cosa avvenuta fino a quel momento tra le generazioni precedenti. Non vi è possibilità di comprensione. Il gran rifiuto è totale e globale, è il rigetto di tutto ciò che era considerato giusto ma che non lo era, è il rigetto dei diritti di sangue ed è il rigetto della differenza tra classi, sessi e razze.
Ma il film non è solo rivoluzionario dal punto di vista sociale, ma anche nell’ambito del microcosmo cinematografico, che vede il confrontarsi della "Vecchia Hollywood" degli eroi maschi con un nuovo tipo di fare cinema, e quindi di interpretare la realtà. Quando Theron litiga con il padre, gli rinfaccia il suo “machismo”, la sua battuta facile, il suo essere donnaiolo senza preoccuparsi delle conseguenze, il suo continuo bisogno di sottolineare e rinvigorire la propria virilità davanti ai propri amici e compagni attraverso anche lo svago della caccia che, in modo primordiale, rappresenta la propria forza e dominio su tutte le altre razze animali della terra. Tutti questi sono attributi del protagonista di quella "Vecchia Hollywood", incarnata benissimo sia metaforicamente che materialmente da Robert Mitchum, che stava ormai, all’inizio degli anni ’60, perdendo per sempre il proprio smalto e, irreparabilmente, il favore del pubblico. Un film che è un necrologio non di un modo di fare cinema, non di una generazione, ma di un’intera epoca dell’uomo, l’epoca delle disparità e delle ineguaglianze. A Theron quindi non rimane che ritornare dalla collina, come recita il titolo originale della pellicola, che in gergo vuol dire tornare a casa dalla caccia, forse per sempre.