Inattivo dai tempi di Bengasi (1942), Augusto Genina dovette aspettare sette anni prima di tornare dietro alla macchina da presa. L’occasione gli arrivò alle porte del Giubileo, con il biopic dedicato a Maria Goretti, visto con più di un occhio di riguardo da settori perlomeno sospettosi della progressiva egemonia culturale che la sinistra stava allora esercitando sul cinema italiano. Sarebbe semplicistico e sicuramente sbagliato dire che da regista di regime (suoi i migliori film di propaganda) Genina divenne qui regista della repubblica, massimo esponente di un altro realismo agli occhi di chi intendeva lavare i panni sporchi in famiglia.
In realtà, la faccenda è molto più profonda, perché, s’è detto molte volte, il regista aveva un curriculum tanto eclettico quanto impeccabile. A suo modo, Cielo sulla palude rappresenta un unicum, certamente un film-cerniera e di frontiera nel percorso di Genina, che apre l’ultima stagione della sua carriera, dominata dall’interesse attorno al femminile e da una certa attenzione al periferico geografico quindi umano. Se superficialmente può sembrare il tipico prodotto da circuito parrocchiale, pensato per un consumo duraturo e rivolto ad un pubblico semplice e popolare, a scandagliarlo bene questo film forse un po’ sopravvalutato eppure complesso, fosco, allucinato – e soprattutto indicativo del periodo più di altri titoli – presenta elementi in apparenza contraddittori che però tendono ad una narrazione consapevolmente retorica.
La povera gente può contare sulla bontà di due nobili che appaiono, concedono e scompaiono, ma non sulla solidarietà di classe, come testimonia la volgare ostilità dell’anziano contadino ubriacone; la chiesa è un’istituzione più importante della scuola (siamo ai primi del Novecento, le politiche dell’istruzioni non hanno alcun effetto presso coloro che non considerano nemmeno l’obbligo scolastico), il sacramento della comunione merita l’attraversamento solitario di una palude piena d’insidie, ma niente vieta al disperato padre di affidarsi al responso di un’indovina o all’amichetta di accettare i baci del moroso.
Tutto, come agiografia comanda, è giustamente volto a celebrare l’immacolata figura della santa, la cui giovane attrice ha però turbato le fantasie erotiche Denys Arcand (la cita ne Le invasioni barbariche e la dice lunga sul non-detto che sottende il film). Assistito dal grande G.R. Aldo, che coglie la luce ora tenebrosa ora aspra dell’Agro Pontino, nonché reduce dall’antitetico e comunque adiacente La terra trema, Genina segue la tendenza neorealista di prendere non professionisti per i ruoli principali, ma più che un improbabile approccio al movimento è forse una scelta da leggere nella prospettiva del rispecchiamento, una sorta di rievocazione popolare di un racconto fondativo nell’immaginario cattolico novecentesco.