“Sei un bugiardo” scrive Jean-Luc Godard a François Truffaut dopo aver visto Effetto notte (1973). Per l’autore de I 400 colpi è il film della sintesi, un tirare le somme sul suo lavoro di cineasta capace di diventare una dichiarazione di poetica. La pellicola si trasforma suo malgrado nel fattore scatenate della rottura definitiva tra i registi che erano stati la scintilla propulsiva della Nouvelle Vague. Una separazione netta tra due sensibilità sempre più distanti, tra due modi di vedere il cinema e la vita dopo il ’68.
Effetto notte è un film bugiardo? Si, forse lo è, ma solo nei limiti in cui lo sono tutti i film, “più armoniosi della vita, senza intasamenti né tempi morti”. Sicuramente non è il film di un bugiardo, perché Truffaut sa benissimo di presentare una mise en scène e lo dichiara fin dal titolo, definizione dello stratagemma con cui si può girare una scena di giorno facendola sembrare in notturna. “Non dirò tutta la verità, ma solo cose vere” dice il regista in una lettera in cui parla del suo film, storia di una troupe cinematografica durante le riprese del fittizio Vi presento Pamela. Un gioco di specchi, per cui Effetto notte è anche il dietro le quinte di una bugia, quindi in qualche modo una specie di confessione. Un mostrare onestamente di essere disonesti. Certo, uno deve accettare la finzione, altrimenti la reazione potrebbe essere isterica come quella della moglie del segretario di produzione: “che cos’è questo mestiere in cui tutti vanno a letto con tutti? In cui tutti si danno del tu, in cui tutti mentono? Ma che cos’è? Ma voi lo trovate normale? Il vostro cinema io lo trovo irrespirabile. Io lo disprezzo il cinema”.
Effetto notte svela questa grande illusione non per denunciarla ma per esaltarla, in quella che è una dichiarazione d’amore a tutti gli effetti. Questo strano oggetto cinematografico non è solo un film su un film, ma anche un film sul Cinema. Quello fatto, che si sta facendo e che è ancora da fare, ma anche quello visto e amato da Truffaut, che dedica Effetto Notte alle sorelle Lilian e Dorothy Gish. Il cinema della sua infanzia, rievocato nel sogno di Ferrand, regista del “film nel film” interpretato dallo stesso Truffaut, che si rivede bambino fare uno dei suoi quattrocento colpi rubando le foto di Quarto Potere. Il cinema dei grandi maestri, i cui nomi compaiono chiari sui libri di critica che il regista di Vi presento Pamela si fa portare. Renoir, Bergman, Dreyer, Hitchcock, fino addirittura a Godard: tutti citati in maniera più meno palese tra le pieghe dei dialoghi.
Che i film siano meglio della vita l’abbiamo pensato tutti, almeno una volta. Truffaut non ha dubbi in proposito. Effetto notte non è tanto un documentario veritiero su come se ne realizza uno, quanto la messa in scena di come i film costruiscano una vita migliore e più armoniosa di quella reale che, come dice Jacqueline Bisset, “a volte è disgustosa”. Il mondo fuori dal set è solo un eco lontano, se ne parla ma non si vede mai, conta solo quello che succede davanti e dietro la macchina da presa. Certo, la vita ci prova a farsi sentire, facendo bere troppo un’attrice preoccupata per il figlio malato, sconvolgendo qualcuno per un abbandono amoroso, addirittura cercando di fermare con la morte le riprese. Ma un film è “come un treno nella notte”. Una dichiarazione rassicurante che nasconde però qualcosa di inquietante nella sua inesorabilità, nella sua chiusura assoluta rispetto all’esterno.
Andare avanti sempre e comunque, ciechi a quello che succede fuori, sordi, come sordo è Ferrand, a qualsiasi cosa che non avvenga nei vagoni. Le luci sono solo all’interno, all’esterno il buio. E non serve neanche la vera oscurità: quando i raggi del sole provano a passare dai finestrini, basta il filtro giusto e si può tornare a essere avvolti dalla rassicurante, meravigliosamente falsa, armoniosamente costruita, nuit américane.