Lo statunitense di origini cubane George A. Romero non ha ancora trent'anni quando il suo film d'esordio esce nel 1968. Lo gira "in famiglia", nella Pennsylvania che non abbandonerà mai, con una troupe di pochissimi intimi e un budget che la vulgata ci tramanda essere cresciuto da un desolante 6000 a un misero 114 000 dollari; la scelta del bianco e nero (caso isolato nella sua filmografia eccezion fatta per le sequenze oniriche del sottovalutato Martin), resa necessaria da un simile handicap produttivo, paga decisamente dato che il gore nero-pece della Notte dei morti viventi resiste alla prova del tempo ancora meglio degli effetti creati dal maestro Tom Savini per i successivi film di Romero; e a posteriori ha un ruolo fondamentale nel rendere il film istantaneamente autorevole, miliare, classico; parola forte per quello che doveva essere (e per lungo tempo è stato considerato) solo un b-movie nato male, ma anche la più onesta quando il b-movie in questione impone un canovaccio narrativo, trae dal cilindro una delle icone della cultura pop dell'ultimo mezzo secolo e marchia a fuoco la storia del cinema indipendente americano.

Il film del '68 si distingue fra i lavori di Romero (che ne ha firmati “solo” 16 in 49 anni di carriera) per essere il più denso e completo, un purissimo distillato del suo cinema; tutte le intuizioni che lo fanno grande, in seguito passate al vaglio una per una ed esasperate con risultati peraltro brillanti, sono qui strumenti umilmente compartecipi di una riuscita narrativa impeccabile: fra queste la scansione geometrica degli spazi, l'ironia acre che farà virare verso il grottesco e la farsa diversi suoi film, la precisione nel montaggio di cui con La città verrà distrutta all'alba si è imposto come uno dei massimi teorici contemporanei;

Del restauro si è incaricato il Museum of Modern Art (MoMA) di New York – il risultato merita il plauso per come esalta le qualità puramente visive del lavoro di Romero senza cadere nella tentazione di “andare oltre”, rendendo magari troppo pulitino un film che proprio sulla grana grossa della pellicola e l'apparente rozzezza punk ha costruito un mito fra i più affascinanti della storia del cinema; il lavoro sul sonoro lascia poi di stucco, giustificando l'orgoglio dei rappresentanti americani (due dei quali all'epoca coinvolti nella realizzazione, uno come produttore, l'altro proprio come tecnico del suono): un centinaio di viti che rotolano in un cassetto aperto di scatto, il fuzz ininterrotto della radio, il soffio delle fiamme, i gemiti dei mostri; La notte dei morti viventi non si era mai sentito così bene.

Roger Ebert racconta il suo primo incontro col film con la consueta ironia e un filo di apprensione; lo vide nel 1969 in una sala in cui “c'erano forse venti spettatori sopra i sedici anni, il resto ragazzini e bambini piccoli” – nell'epoca delle matinee a base di buffi monster movies, restituitaci dall'impagabile Joe Dante, non si pensava minimamente di vietare un horror ai suoi spettatori più tipici; la loro reazione passò in fretta dai gridolini di gioia al silenzio di tomba, poi al pianto disperato. “non avevano idea di cosa li avesse colpiti”. E non solo i bambini; ad oggi c'è ben poco che possa competere col pugno nello stomaco di questo grande, saggio, furioso film politico. Basta un accenno di trama a dare i brividi: sette persone barricate in un casolare in una torrida notte d'estate; fuori, i morti camminano.