Se c’è un film di Ettore Scola che davvero sembra pensato oggi, quello è Splendor. Non è il suo lavoro migliore, anzi, non si fa fatica a inserirlo nel novero delle prove meno risolte, ma non è questo il punto. Splendor nasceva da un’urgenza: denunciare la morte del cinema come evento collettivo raccontando la chiusura di una sala di provincia. A sottolineare la dimensione civile c’era anche un “cattivo”, un certo cavalier Lusconi che perde il Ber- iniziale ma, insomma, è proprio l’uomo di Arcore, e infatti Splendor più che collocarsi accanto a Nuovo cinema Paradiso si riverbera dal Fellini di Ginger e Fred e di “Non si interrompe un’emozione”, lo slogan contro le pubblicità nei film trasmessi in tv che era manifesto poetico e politico ma anche una lotta contro i mulini a vento. Rivisto e ripreso oggi, lo stesso Splendor, coi ricordi dei bambini impressionati di fronte al grande schermo itinerante e l’avventura picaresca di un esercente periferico, sembra un lamento la cui eco è ancora nitida.
Passano gli anni (cinque dalla morte) e quella di Scola è sempre più una voce nitida. Un autore che riesce, a tratti sorprendentemente, a rinsaldare il patto con il pubblico, intercettare nuove generazioni, imprimersi nella memoria degli spettatori. E questo perché tra tutti i maestri della commedia all’italiana è stato il più acuto e attento a raccontare la complessità del carattere nazionale, tant’è che molti suoi film possono costituire una sorta di sussidiario illustrato della storia italiana. Se Mario Monicelli ha raccontato l’epica dei cialtroni e i roboanti fallimenti di grandi imprese e Dino Risi è stato cinico anatomopatologo di amabili vigliacchi pieni di contraddizioni, Scola ha esplorato come pochi il contesto socio-culturale, interessato all’inserimento dei personaggi in una struttura narrativa che potesse essere teorema significante e non gabbia ideologica, alla sintesi umoristica tra rappresentazione realistica e sublimazione satirica.
Più di Monicelli e certamente di Risi, Scola voleva bene ai suoi antieroi. È il più italiano di tutti, provinciale a Roma che ha imparato a osservare il popolo traducendolo in illustrazioni. Al pari del Fellini che gli fu collega, amico e riferimento, l’immaginario del Marc’Aurelio, la rivista che fu palestra di una generazione (Fellini, Steno, Age, Scarpelli, Metz, Marchesi, Bava…), si riverbera in un apparato umano che non rinuncia mai a un’occhiata stralunata, una capigliatura assurda, un profilo spigoloso. Non sembrano uscire da vignette lo zio fascista de La famiglia, il deputato comunista de La terrazza, tutti i protagonisti di Ballando ballando? Forse la grandezza di Scola è stata bifida. Da una parte ha avuto l’intelligenza di mettersi al servizio della generazione precedente alla sua, rivendicandosi allievo di Steno, Luigi Zampa, Antonio Pietrangeli; dall’altra, si è circondato di collaboratori che riuscivano a guardare il mondo attraverso questa angolazione eccentrica, dove la virtù è tale solo se può essere anche difetto.
Scola ha pedinato gli italiani, ne ha colto le ossessioni private (dal Commissario Pepe alla ricerca della verità impossibile al Viaggio di Capitan Fracassa, che a sua volta è un’antica ossessione di Scola come si può vedere nel momento più tragico de La terrazza), catturato e ribaltato i luoghi comuni (che “contengono sempre un po’ di verità” dice Adriana ne La famiglia, scatenando il sarcasmo di Carlo: parafrasi di tutta un’opera), raccontato quanto possano essere vittime di umori instabili e volubili. Tutti i personaggi di Scola credono di sentirsi sprecati rispetto a ciò che la vita offre loro e perciò abdicano al razionalismo per lasciarsi condizionare dagli impulsi, dai contraccolpi, dalle affettuose storture del carattere.
Una cesura ideale è il finale di Riusciranno i nostri eroi…, dove l’industriale non riesce a buttarsi in acqua per seguire la malia africana: dopodiché tutti sovrappongono l’istinto alla logica, dai vertici del triangolo proletario di Dramma della gelosia al bel soldato travolto da una malata e fatale Passione d’amore. Non a caso, sono rarissime le storie d’amore che finiscono bene nel cinema di Scola. È praticamente a pezzi ogni relazione dei protagonisti de La terrazza (a parte Enrico lo sceneggiatore, talmente a pezzi che può contare solo sulla paziente moglie), vive solo in un passato inventato il love affair di Maccheroni, non ha futuro quello implausibile del Romanzo di un giovane povero. La più importante storia d’amore è quella consumata nell’arco di Una giornata particolare, impossibile per definizione (a parte tutto, può avere luogo un amore in cui uno dei due dice a un altro “Pensami quando puoi”? Esiste dichiarazione più drammatica?), ma quanta crudeltà nel mettere in scena l’epifania di Carlo ne La famiglia, che solo da vecchio si rende conto di aver mal investito tutto l’amore di una vita.
E poi, sì, C’eravamo tanto amati che è sin dal titolo il manifesto di questa consapevolezza: “Sceglieremo di essere onesti o felici?”; “Io pensavo che un grande amore fosse un grande amore”; “Per tutti questi anni non ho fatto altro che pensare a te”, “Ma io no!”. La dittatura del carattere, l’idea di sentirsi sprecati, la nostalgia di un amore mai dimenticato: c’è tutto Scola, in quello che è il suo capolavoro, un film perfetto per costruzione ed emozione, amatissimo oggi più di allora (ma in generale è un autore a cui il tempo ha dato ragione), citato e copiato da giovani registi devoti, il pezzo forte del sussidiario illustrato. Magari Splendor dialoga con l’attualità, ma C’eravamo tanto amati – e Una giornata particolare, l’altro apice – è un classico assolutamente contemporaneo. Imprescindibile per comprendere questi ultimi mesi. Questo ci lascia Scola, a cinque anni dalla scomparsa: la possibilità di un classico.