A volte accade che alcuni artisti, per motivi più o meno evidenti o condivisibili, decidano di impedire la diffusione delle proprie opere. Se nell’antichità ciò avveniva addirittura tramite la distruzione delle proprie creazioni, oggi ciò si può verificare semplicemente attraverso un meccanismo di autocensura. Così è stato per Ingmar Bergman nei confronti del suo film del 1950 Ciò non accadrebbe qui, la cui distribuzione venne ostacolata in un primo momento dal regista stesso e successivamente dai suoi eredi in seguito alla sua morte. La pellicola è ora stata diffusa in un numero limitato di copie in occasione del centesimo anniversario della nascita del sommo regista svedese. Una rarità dunque, per un film di cui difficilmente si trovano notizie anche nei numerosi scritti riguardanti la filmografia di Ingmar Bergman.
I motivi che lo portarono a questa decisione possono essere molteplici e non ben definiti, passando da quelli strettamente politici riguardanti un film ambientato in un periodo di piena Guerra Fredda, a una questione cinematografica legata al genere thriller, con il quale Bergman non ebbe mai troppa confidenza. Ciò che ci troviamo davanti oggi è, a tutti gli effetti, una spy story plasmata sul modello del noir statunitense, ma capace di assimilare lo stile classico e superarlo a livello stilistico. Notevole è l’uso del piano sequenza, che Bergman usa in alcune scene cruciali di questo film, con dialoghi interminabili e sapiente utilizzo del montaggio interno. In contrasto, è rilevante anche il ricorso ai primi piani per evidenziare lo stato emotivo dei personaggi, secondo la lezione di quel cinema muto che tanto affascinò il regista nella sua infanzia.
Un film in cui possiamo, perciò, trovare varie influenze cinematografiche che vengono qui sfruttate per creare un’atmosfera di tensione perenne, che lo pervade per tutta la sua durata e che rappresenta la forza principale di quest’opera. Più che la riflessione politica riguardante gli esuli provenienti dal fittizio stato della Liquidatzia e le loro difficoltà ad infiltrarsi nella Stoccolma del secondo dopoguerra, è proprio l’angoscia provocata dalla costruzione delle sequenze ad accompagnare lo spettatore dopo essere uscito dalla sala. Un’opera dal forte impatto emozionale, dinamica ed a tratti estremamente crudele che non può lasciare indifferenti. Un film che evidenzia la versatilità di Bergman e la sua capacità di spaziare tra i generi e quindi, nonostante la riluttanza dell’autore stesso, un tassello necessario alla comprensione della sua poetica.