Si è detto che Climax di Gaspar Noé sia, come e ancora più dell’ultima fatica di Luca Guadagnino, un remake del Suspiria argentiano: Germania d’inverno, tappezzerie psichedeliche, tanto rosso sangue e, soprattutto, una scuola di danza in cui "succedono cose strane". A ben guardare, Climax potrebbe essere persino un lontano cugino del rifacimento di Guadagnino. Ad accomunare i due film, figli di due autori che più di così non si può – non in senso valutativo, ma nell’accezione corollaria di un’idea di cinema forte e innegabilmente personale – ci sono altrettanti trait d’union: il ballo come incantamento e come tortura, lo spazio come labirinto, l’elemento grafico che irrompe nel flusso del film sotto forma di font ricercatissime, il sabbath rossonero finale, l’amore sconfinato per piani-sequenza da vertigine e movimenti di macchina forsennati – una soluzione visiva elaborata ad hoc per un singolo film da Guadagnino, una cifra inconfondibile e ben più totalizzante per Noè, a partire da Enter the Void: in entrambi i casi, comunque, una scelta tanto radicale da non poter essere ascritta al pervadere di un certo gusto arty.
Ma c’è una differenza fondamentale. Suspiria di Guadagnino è uno di quei film che affastellano segni, eccedono volutamente la comprensione, e impongono infine l’interpretazione, sia essa politica, psicanalitica e sociologica (o tutte insieme, possibilmente, ma comunque si esce dalla sala e ci si chiede: "che cosa voleva dire?"). Climax ci sembra, al contrario, un film estremamente letterale: a dispetto dei jump cut e dei plongé, delle massime sapienziali capovolte e dei titoli di testa furbescamente piazzati a metà film, Climax è un film di schematismo elementare, di una referenzialità diretta e trasparente.
Un film in cui ogni simbolo si dà immediatamente nel suo significato testuale – "francese e fiero di esserlo", con tanto di correlativo oggettivo tricolore, a scanso di equivoci – e talmente cristallino nella sua genealogia intellettuale da contenere, in apertura, una bibliografia (volumi di Nietzsche e Bataille, DVD di Eraserhead, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Possession, La maman et la putain e tanti altri, Suspiria compreso, danno bella mostra di loro nel quadro iniziale). Il delirio che si dispiega fino ad occupare la metà del film non è male strisciante nella società né disagio esistenziale: è delirio punto e basta, puro e acidissimo come le tinte del film, indotto da una banale sangria corretta all’LSD. Non siamo né dalle parti di Kenneth Anger – come vorrebbe forse farci credere Noè, nella sua ambizione bruciante – né da quelle di una cialtroneria malevolmente studiata – come urlano i detrattori. Siamo piuttosto in balia dei tentativi di rivendicare un cinema libero, strabordante, avventato e scriteriato, animato dall’urgenza sincera di bruciare ogni limite, per vedere cosa c’è dopo.