Cloud di Kiyoshi Kurosawa è qualcosa di più di un semplice thriller. Ha azione, una violenza a tratti efferata, anche il mistero e una non velata ironia celata dietro agli strani comportamenti dei personaggi e al destino del protagonista. Allo stesso tempo sul film aleggia una sensazione inquietante di pericolo imminente, riflesso dello sconforto del regista verso un presente che appare senza speranze.

Tra un turno di lavoro e l’altro Ryosuke Yoshii (Masaki Suda) è riuscito a costruire furbescamente un’attività da rivenditore al dettaglio. Compra merce all’ingrosso e la rivende ad un prezzo dieci volte più alto su un sito di ecommerce, usando ironicamente il nickname Ratel che vuol dire serpente a sonagli.

Con questa compravendita si arricchisce abbastanza da potersi permettere di rifiutare una promozione a lavoro e licenziarsi, lasciando interdetto il proprietario della sua azienda. Tutto sembra andare per il meglio, ma la spavalderia e qualcosa nel suo comportamento gli scavano un fossato attorno, creandogli un numero sempre più nutrito di nemici.

Guardando il campo-controcampo tra il volto in tensione di Ryosuke e lo schermo del suo pc su cui monitora le vendite è difficile non pensare a Kairo, il film del 2001 con cui Kurosawa ha raccontato per la prima volta internet come una preoccupante fonte di dolore e paura. Erano i circuiti dei computer in Kairo a partorire dei mostri, a precipitare gli utenti nella disperazione e ad acuire la lacerante atomizzazione della società giapponese. Ventitré anni fa internet era ai suoi albori e per Kurosawa nascondeva evidentemente una minaccia intrinseca.

Dopo tanti anni in Cloud il regista riprende il discorso, scoprendo come effettivamente internet abbia mantenuto solo in parte la sua promessa di ridurre le distanze tra gli individui, contribuendo ad una fratellanza tra i popoli. In realtà ha stimolato i lati più oscuri dell’animo umano, offrendogli uno strumento per alimentarsi e venire a galla con maggiore ferocia.

La differenza sostanziale con Kairo è che mentre in quel film la minaccia era ultraterrena, proveniente da un’altra dimensione, in Cloud è brutalmente materiale. Ciò che succede su Internet ha conseguenze dirette sulla realtà, cova dietro lo schermo, cresce di intensità, ed esplode con violenza. Non si tratta più di fantasmi, ma di qualcosa che proviene direttamente dall’uomo e ha ripercussioni sull’uomo.

Così Ryosuke continua le sue attività, perseguitato da un continuo senso di minaccia, che apparentemente non è giustificabile. Torna da lavoro con la sensazione di essere seguito, sente strani rumori attorno a casa. Il pericolo è costante come se andasse punito per aver scelto un’indipendenza totale, seppur moralmente dubbia e per certi versi parassitaria.

Infatti Ryosuke è pur sempre un personaggio ambiguo, che sfrutta le difficoltà o l’ingenuità altrui per arricchirsi e che rispecchia in piccolo il funzionamento più classico del sistema capitalistico esattamente come fanno, in grande, multinazionali come Amazon.

Nonostante tutto, però, Cloud non è un film drammatico. Man mano che va avanti assume connotati sempre più surreali e ironici fino a diventare quasi una parodia di uno yakuza movie, in cui, per esempio, un personaggio fino a quel momento marginale si prende la scena trasformandosi in nell’incarnazione meno elegante dell’invincibile Tetsuya di Deriva a Tokyo.

Tutti i personaggi in fondo hanno comportamenti fuori dalle righe, non rispondono alle aspettative dello spettatore e neanche a quelle di Ryosuke che si trova in uno stato di sempre maggiore confusione di fronte alle azioni di chi gli sta intorno.

Seppur non sia il miglior film del regista giapponese, per una piattezza formale e di sostanza che non appartiene a capolavori del calibro di Tokyo sonata o lo stesso Kairo, Cloud ha il merito di riprodurre efficacemente la schizofrenia della contemporaneità. Di fronte ad un mondo in cui il senso di fine si fa sempre più ingombrante, Kurosawa mostra come l’umanità si sia chiusa in se stessa, atomizzandosi, sempre alla ricerca di un nemico su cui scaricare la propria rabbia.