“Ci fu un’idea…”, quella di trasporre sul grande schermo ciò che prima funzionava solo tra le pagine di un fumetto, per vedere se agli occhi del mondo poteva diventare qualcosa di più, così, quando sarebbe servito, avrebbe combattuto le battaglie che prima di allora erano soltanto dei caleidoscopi brillanti nella nostra mente, impossibili da vedere proiettati. Era il 2008. L’idea di un universo cinematografico condiviso faceva ancora sorridere quelli per cui “l’Arrampicamuri” era l’Uomo Ragno, e non Spider-Man; quelli che leggevano le avventure di Capitan America, non Captain America; quelli che sentivano vibrare dalla carta il nome “Vendicatori”, perché gli Avengers erano solo oltreoceano.
Poi un uomo di nome Kevin Feige ha deciso di mettere in piedi questa cosa, chiamata Marvel Cinematic Universe, MCU per gli amici. Il piano era non solo creare un universo condiviso per tutti (tutti quelli disponibili) i supereroi Marvel, ma fare in modo che ogni film fosse parte di una storia più ampia, un flusso continuo che, esattamente come nei fumetti, rimbalzasse su più testate, si scontrasse, sfasciasse e ricostruisse ancora, ancora e ancora. Kevin si fa le ossa con tutti i film sui supereroi possibili, passando per Bryan Singer, Ang Lee, Sam Raimi fino a capire che… un altro cinema è possibile. Bisogna solo pensarlo. Ecco che quindi Kevin Feige sceglie Jon Favreau come regista e risolleva dalle ceneri della droga Robert Downey Jr., per dargli il ruolo che lo avrebbe reso iconico. Anzi, che lo avrebbe reso, oltre ogni ragionevole dubbio, genio, miliardario, playboy e filantropo. Tony Stark è Robert Downey Jr., e viceversa. Ed entrambi sono Iron Man.
Dal 2008 di Iron Man al 2019 di Endgame sembra passata un’infinità. Una surreale (ma bella) infinità. Feige (con Disney e Marvel alle spalle, ovviamente) ha creato un capolavoro crossmediale: il primo vero universo seriale al cinema, che si è riversato a pioggia sugli stessi fumetti, sui videogiochi e sulle serie tv. Un universo concepito per funzionare sia come tale, sia come insieme di film presi singolarmente, che macina miliardi di dollari e crea fan nei luoghi più insospettabili. Quella che è appena terminata, cioè la Infinity Saga del MCU, è una gargantuesca serie televisiva proiettata in sala, che dal primo film all’ultimo ha preparato la ricerca delle Gemme dell’Infinito (sei oggetti che controllano ognuno un aspetto differente della vita) e lo scontro finale con il villain (Thanos, in questo caso). Dagli anni in cui la Marvel svendeva i diritti cinematografici dei suoi supereroi per non fallire al loro riacquisto a cifre folli sembra davvero passata un’infinità.
Il cinema contemporaneo ha dovuto fare i conti con il MCU. Mostri sacri della recitazione (anche passata) che ci si infilano dentro, pronti a far parte di una macchina dei sogni più grande di loro. Non è un caso che l’ultimo film di Robert Redford non sia Old Man & the Gun, ma proprio Avengers: Endgame. Perché se nel 1981, al posto di Chris Evans, fosse nato Redford, ora avremmo lui a stringersi lo scudo di Captain America sul braccio. E Iñárritu può lamentarsene con tutti i Birdman che vuole, ma quando Joss Whedon dimostra, nel 2012, che un folto gruppo di gente in calzamaglia può coesistere in un film sognato da chiunque sia cresciuto con gli “snikt” e i “kra-koom”, oppure quando James Gunn nel 2014 rende parte della cultura pop un albero antropomorfo che pronuncia una sola frase in tutto il film (facendo pure partire il revival anni ’80), beh… i prodotti non sono proprio “terribilmente vuoti”, e qualcosa lasciano davvero.
Lasciano uno stile, un’impronta di marketing totalizzante ma al tempo stesso una volontà di andare a scovare registi nei luoghi più lontani possibili dal Wakanda (Kenneth Branagh, Anthony e Joe Russo, Taika Waititi, Anna Boden e Ryan Fleck) e farli cimentare con qualcosa di così estraneo alla loro sensibilità. I risultati sono altalenanti, certo, ma una spinta serve a tutti.
Il MCU è la prova tangibile che un cinema supereroistico diverso è possibile (ma è meglio fare una telefonata alla coppia DC-Warner per chiedere conferma). È la prova che si può essere autori anche scrivendo i dialoghi di un procione parlante o inserendo un cammeo di Jerzy Skolimowski che tenta di torturare la Vedova Nera. Perché il MCU ha dimostrato che si può amare La ragazza del bagno pubblico e allo stesso tempo sentire i brividi quando “Io sono Iron Man” apre e chiude il più grande miracolo cinematografico mai concepito, esattamente come un bambino che divora i fumetti nella sua cameretta, al buio, con la torcia sotto le coperte.
Un bambino che crescerà e ritornerà piccolo film dopo film, fino a che le luci non si accendono e si rende conto che non ci sono più scene dopo i titoli di coda (perché il MCU ha cambiato anche questo nell’educazione della sala: il rimanere letteralmente fino alla fine), fino a rendersi conto che questa saga, nel bene e nel male, la amerà per sempre a tremila.