I hope you're happy
I hope you're happy too
I hope you're proud how you would grovel in submission
To feed your own ambition
So though I can't imagine how
I hope you're happy right now
Stephen Schwartz, Defying Gravity
Giunta contro ogni pronostico nella luccicante Emerald City per incontrare il meraviglioso Mago di Oz insieme all’amica Glinda, Elphaba, protagonista del celebre musical Wicked, composto da Stephen Schwartz con libretto di Winnie Holzman, intuisce nitidamente una triste certezza.
Riportata in vita nel recente adattamento di Jon M. Chu da Cynthia Erivo, che qui s’immedesima nella famigerata Strega Cattiva dell’Ovest con una disinvoltura tale da superare l’interpretazione originale offerta da Idina Menzel a Broadway, Elphaba è colonizzata dal dolore. Eppure, nonostante il mondo sia sprofondato in un regno di incoerenza permeato d’ipocrisia, nonostante le lacrime si rivelino più nocive delle schegge di vetro esplose fuggendo dalle guardie di un sovrano corrotto inspiegabilmente amato, negli occhi indignati della più dotata studentessa di Shiz resta una traccia di lucidità.
Il fascino di Madame Morrible brilla e pulsa, ma è una creatura sleale. Elphaba, abituata a vivere ai margini, non è mai stata la sua prediletta, bensì una pedina in un gioco inaccessibile ai sudditi, ignari. D’altra parte, il Mago, smascherato, si mostra nella sua totale nudità. Era sempre stato, in realtà, un semplice individuo privo di qualsiasi potere. Un virus sembra prendere infine possesso del cielo, svuotandolo di colore e significato. L’onestà si trasforma in crimine. La Storia in una rete di bugie. La salvatrice nella nemica da uccidere. La speranza in una coltre di tenebre senza fine.
Diversi anni dopo, in un’altra città eterna, distante migliaia di chilometri, farà la sua comparsa un altro corpo estraneo. Anche se meno appariscente rispetto alla figlia del Governatore Thropp, un cardinale arrivato alla chetichella da una delle frange più povere dell’universo, al pari dell’antagonista di Dorothy, prenderà una decisa posizione contro l’egoismo che alberga nel Vaticano.
Nel descrivere Conclave, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris e diretto da Edward Berger – regista di una “spettacolare” rivisitazione del romanzo di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale vincitrice di quattro Oscar –, si ricorda la seguente frase, pronunciata in un contesto e momento ben più urgente. Una dichiarazione del giornalista ucraino Mstyslav Chernov che, aprendo il suo premiato documentario 20 giorni a Mariupol, afferma ciò: “Le guerre non iniziano con le esplosioni, ma con il silenzio”.
In Conclave, sceneggiato non casualmente da Peter Straughan – nominato all’Oscar, insieme a Bridget O’Connor, che ricevette la sua candidatura post mortem, per un pregevole adattamento tratto dal romanzo di John Le Carré La talpa – si avvera quanto detto da Chernov (per quanto si svolga, si tiene a precisare, al riparo dalle bombe).
Infatti, come dice il Cardinale Bellini (Stanley Tucci), tra i più vicini al Decano Lawrence – il sempre misurato Ralph Fiennes, bravissimo a destreggiarsi tra inglese, italiano e latino –, il quale si assume obtorto collo la responsabilità di dirigere i lavori di un’elezione affatto pacifica: “L’ambizione è il tarlo della santità”. Infatti, l’improvvisa morte del Santo Padre non darà adito, come si potrebbe sospettare in prima istanza, a una caccia all’uomo guidata da un improbabilissimo investigatore.
Semmai, si assisterà a una crudele partita, i cui partecipanti – esteriormente gli umili servitori dediti a un’esistenza di sacrifici; a conti fatti, esseri mortali al servizio di un ideale, pertanto defettibili e indegni ognuno a suo modo – rivestiranno alternativamente entrambi i ruoli imposti dalle regole del gioco. Il ruolo del giocatore, da una parte; dall’altra, il ruolo della pedina. Uomini di Dio, eppure dimentichi del mondo reale, stordito, al di là delle finestre e degli affreschi della Cappella Sistina, dalla minaccia di ulteriori attacchi terroristici – anch’essi, paradossalmente, un prezioso strumento nelle mani dei candidati più conservatori - vedasi, il fumantino Cardinal Tedesco, interpretato da Sergio Castellitto. Uomini di Dio, eppur immersi in una dimensione raggomitolatasi nell’agio e così lontana da tutto.
In tal senso, non così dissimili dai due nobiluomini protagonisti del dramma storico di Satyajit Ray I giocatori di scacchi (1977) che, talmente ossessionati dallo Shatranj – antica variante persiana degli scacchi – da non curarsi del benessere e delle esigenze delle proprie famiglie, non verseranno una lacrima per la tragica caduta del loro re, limitandosi a difenderne l’onore sulla scacchiera. Un re a sua volta debole e facilmente ingannabile, tanto interessato alle arti quanto noncurante della politica.
Conclave è un asciutto e classico thriller morale e, verso il finale, forzatamente fantapolitico del quale, al di là delle puntuali prove offerte da un cast che si sapeva di prim’ordine e della scrittura dell’esperto Straughan, resta poco di davvero memorabile. Non promettendo né più né meno di quanto prospettato dalla sua confezione. Un paio di anni fa, le vicende del giovane Paul Bäumer in Niente di nuovo sul fronte occidentale si svolgevano quasi assecondando lo stile di un sadico e muscolare videogioco, animato più dalle idee che dalla vita vera e propria.
Perlomeno, in Conclave si ritrova un’interessante incursione in tematiche che avrebbero meritato una più approfondita indagine, quali femminismo e inclusività. In tal senso, si citano gli otto minuti riservati a Sorella Agnes (Isabella Rossellini) che, in una scena cruciale, con criterio e risolutezza, sgriderà i componenti dell’assemblea, ancor più indisciplinati dei giurati apparsi sul palcoscenico grazie a una famosa pièce di Reginald Rose.
Ancora, in tal senso, si allude al finale, inaspettato e clamoroso, nondimeno espletato con una fastidiosa frettolosità. D’altronde, affinché una rivoluzione penetri nella mutevole geografia di un organismo, bisogna dedicarvisi ciecamente. Corpo e anima. Abbandonando la misura.