C’è stato un momento, abbastanza improvviso, in cui il cinema italiano ha deciso di fare a meno di Mariangela Melato, scomparsa nel gennaio 2013 e che il 19 settembre avrebbe compiuto 80 anni. È una semplificazione, probabilmente, perché il richiamo dell’amato palcoscenico si fece così forte da non poter più essere ignorato, d’accordo, e per almeno tre decenni il teatro ha potuto godere delle gesta della più grande attrice della sua generazione. E però la cesura ci fu, netta benché meno traumatica di quanto ci appare oggi rileggendo la filmografia di questa artista fuori dall’ordinario.
Nel suo decennio di massima gloria cinematografica, cioè quello dei Settanta di cui fu l’interprete femminile più rappresentativa, Mariangela Melato partecipò a circa trenta film; escluse le prime apparizioni (su tutte la perfida vedette spagnoleggiante del clamoroso Basta guardarla di Luciano Salce), si tratta quasi sempre di ruoli da protagonista. Come Monica Vitti, altra campionessa di quel decennio ma affermatasi e trasformatasi negli anni precedenti, bastava Mariangela Melato a giustificare l’esistenza stessa di un film, reggere il peso di un’intera produzione, competere ad armi pari con i colleghi maschi, colonnelli della commedia compresi.
E non pare strano che di quella generazione più vecchia di lei di almeno vent’anni a spartirsi la scena con Melato furono soltanto il parimenti meticoloso Nino Manfredi (ma Lo chiameremo Andrea, penultima regia di Vittorio De Sica da riscoprire, è anche una lotta di posizionamento e una sfida tra istrioni al servizio di un disorientamento coniugale) e Ugo Tognazzi, il meno muscolare e il più curioso di quel novero d’attori (ne Il gatto, non a caso, sono fratelli, lombardi in amorosa corrispondenza).
Quando diciamo che di quegli anni fu l’attrice più rappresentativa, e con questo intendiamo dire che Melato è stata un’interprete spiazzante e spericolata: dea d’una vulnerabilità ancestrale e al contempo maschera della modernità, corpo contestatario e spirito che affonda le radici nella tragedia greca, affabulatrice indefessa e trasformista incapace di prescindere da una personalità artistica monumentale. Milanese di ringhiera con tutto ciò che ne consegue nel modulare un pratico disincanto all’altezza dell’incanto surreale, danzatrice per studio e poi passione riemergente con tutto ciò che ne consegue nell’attitudine a dare tridimensionalità coreografica ai personaggi, teatrante di scuola ronconiana con tutto ciò che ne consegue nella reinvenzione di un vocabolario che si incarna nella voce e nell’atto che si fa parola, Melato ha rivoluzionato il cinema italiano dando vita a un tipo di donna che, sic et simpliciter, prima di lei non esisteva.
Sarà forse legato anche al fatto che, a differenza delle colleghe coeve, ha conosciuto tardi l’epifania dello schermo. Melato arriva al cinema, infatti, a ventinove anni, mentre le altre della sua generazione stavano già vivendo una seconda vita: se Stefania Sandrelli è un sussidiario vivente dell’educazione sentimentale di una nazione e Carla Gravina ha raccontato la rivoluzione femminista passando dal prototipo di ragazza ribelle ma inquadrabile nel canone borghese a militante politica che si oppone al conformismo, Melato non è stata solo un’espressione del femminile del suo tempo (autonomia, emancipazione, fragilità, fierezza) ma ha anche ridefinito una recitazione del tutto inconsueta spingendo il naturalismo al limite, trasfigurando il reale in una dimensione straniante ed elegantemente grottesca, edificando sul gesto teatrale una nuova immagine cinematografica.
In questo senso le sono stati fondamentali Elio Petri e Lina Wertmuller, l’uno nel far vibrare la sensibilità iconoclasta dello sperimentalismo che amava esplorare (La classe operaia va in Paradiso e Todo modo, in entrambi i casi accanto a Gian Maria Volontè, consapevole di giocare sullo stesso piano con la partner) e l’altra nell’offrirle la possibilità di rinnovarsi ogni volta peraltro accanto all’amato Giancarlo Giannini, l’attore a lei più simile, il suo controcanto maschile, il compagno di giochi. GG e MM, grandi attori con la doppia iniziale dei quali parlava Catherine Deneuve in Le verità. Il pubblico la venera tuttora proprio per il terzetto di film del trio, esplosione creativa ancorché mitizzata che vede Melato prima amante proletaria in Mimì metallurgico ferito nell’onore (vi dice una delle più belle frasi del cinema italiano: “Io all'amore ci credo, per me l'è na roba seria”), poi prostituta dinamitarda in Film d’amore e d’anarchia, infine “bottana industriale” in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto.
Sono ruoli iconici, figure emblematiche di un’epoca, e nessuna come lei riuscì a incidere in quel decennio con la stessa forza, nemmeno Vitti (classe 1931, esattamente dieci anni più grande di MM) che in quel periodo si votò alla pochade con rilassata professionalità dopo aver svolto lo stesso lavoro sull’immaginario prima di lei, da vestale dell’incomunicabilità a regina della commedia operando sempre nelle stanze dell’inconscio. Sono gli anni, i Settanti, che vedono Melato apripista, esploratrice di territori vergini, erede di Alida Valli: è La poliziotta, farsa sociale di grande successo che annuncia e nega le successiva degenerazioni sporcaccione; è l’antifranchista nella surreale allegoria L’albero di Guernica; ragazza madre che si carica del peso della contestazione in Caro Michele; lesbica nevrotica in Dimenticare Venezia, dramma tra Bergman e Visconti che contribuì ad accompagnare agli Oscar.
Un decennio fertile che si espande fino ai primi anni Ottanta: trova il tempo di lanciarsi con generosità nella ricerca dell’insolito urbano (Oggetti smarriti di Giuseppe Bertolucci, uno dei suoi autori-feticcio), nell’immersione nell’onirico padano (il musical Aiutami a sognare di Pupi Avati, che la fece debuttare al cinema con Thomas e gli indemoniati), nella critica pre-felliniana al consumismo televisivo (Domani si balla! di Maurizio Nichetti), concedendosi anche una trasferta americana (Flash Gordon e Jeans dagli occhi rosa; e se avesse accettato Alien...). E poi? E poi qualche incursione con amici (Bertolucci, Sergio Rubini) un po’ di buona televisione, e il decisivo ritorno al teatro. Diva perché dea terrena, capocomico per vocazione al cameratismo, maestra della scena ammirata dai colleghi adoranti.
Corpo contundente, anima infiammabile: a un certo punto il cinema (italiano) non sapeva dove metterla, non sapeva cosa farsene. Andò così, forse le andò bene perché il cuore voleva stare altrove e il pubblico ha continuato a seguirla con l’affetto, la stima, l’amore dovuta a una regina. Però, però.