Un vecchio detto spagnolo recita: “un cane andaluso ulula, qualcuno è morto.” Nel 1929 l’ululato di Buñuel e Dalí — l’incontro fra due sogni, come lo definirono entrambi — squarciò non solo le logiche cinematografiche, ma quelle delle stesse avanguardie. “Il était une fois…” e il sogno di Buñuel comincia, con quella nube sottile che taglia la luna a metà come il rasoio taglia l’occhio a Simone Mareuil. E a continuare il sogno, taglio dopo taglio, è Salvador Dalí e qualcun altro lo sta continuando ancora oggi, passando per, che so, i sogni di Jean Cocteau, André Breton, Jean Vigo, David Lynch, David Bowie e Black Francis, che di quel cane andaluso ne ha cantato e ancora ne canta (“slicing up eyeballs, I want you to know…”).
Ma la logica onirica di Un chien andalou è solo un pretesto. Non un escamotage per spalancare le porte alle infinite possibilità della mente, ma per chiuderle in faccia alla ricerca ossessiva di una spiegazione psicologica, razionale, antropologica, o più genericamente “culturale”, nel senso tyloriano del termine. E più che sigillarla, socchiuderla, quella porta, quasi a voler aspettare il momento giusto per stringere violentemente una mano nello stipite. La lama che nel racconto ambisce a tagliare l’occhio a Simone Mareuil — e che finisce per recidere il bulbo oculare di un vitello morto con un agile trucco di montaggio — non vuole lasciare spazio ad altro che alla violenza stessa della scena. E la didascalia del “c’era una volta” cede il posto a “otto anni prima”, “alle tre del mattino”, “in primavera”, in modo che la mente dello spettatore non abbia il tempo di rimandare l’immagine ad altro. Il sogno deve brutalmente continuare, in un anacronismo perpetuo, perché, come ricorda Buñuel, “niente nel film simboleggia alcunché.” Una mezza verità che desidera scoraggiare qualsiasi metodo di investigazione razionale e qualsivoglia intento enciclopedico.
Un chien andalou resta un rituale grottesco che celebra le infinite possibilità dell’immagine attraverso la lente distorta dell’inconscio. È il vero manifesto del Surrealismo, fedele a quell’automatismo psichico che desidera slegarsi dalla ricerca spasmodica di un senso partecipato, riconoscibile, condiviso. E ciò che le immagini simboleggiano continuano a farlo oltre ogni forma di controllo intellettuale e intersoggettivo, fuori da codici estetici e morali. Si può quindi facilmente comprendere quanto grande potesse essere la delusione di Dalí di fronte all’accoglienza entusiasta di Le Corbusier, Picasso e dell’intero gruppo dei Surrealisti. Un chien andalou — che è ormai parte integrante (e amatissima) della storia del cinema — voleva essere un insulto agli intellettuali borghesi, una reazione violenta e fortemente beffarda all’intero concetto di “avanguardia”. Utilizzare il mezzo cinema per prendersi gioco della sensibilità artistica di matrice autoriale, dirigendosi direttamente alle emozioni viscerali dello spettatore.
Nelle parole di Buñuel: “‘un film di successo’, ecco quello che pensavano la maggior parte delle persone che l'hanno visto. Ma che posso io contro i ferventi di ogni novità, anche se questa novità oltraggia le loro convinzioni più profonde, contro una stampa venduta o insincera, contro questa folla imbecille che ha trovato ‘bello’ o ‘poetico’ quanto, in fondo, non è che un disperato, un appassionato invito all’omicidio?” Il taglio dell’occhio, oltre a celebrare le lezioni di montaggio di Ejzenštejn, palesa l’urgenza di irretire e aggredire lo spettatore, recidendo ogni legame con le vecchie condizioni della visibilità. E la struttura alternata di Un chien andalou nasconde una storia d’amore crudele destinata al sacrificio. In un turbinio vorticoso di mani recise, formiche, abiti clericali e asini putrescenti, l’opera prima di Buñuel spiana la strada a uno sguardo cinematografico sadico e ironico, una sfida aperta alle posizioni di presunta superiorità artistica. L’autore non è più custode di arcane consapevolezze, ma organizzatore (e demolitore) dello spazio narrativo. E sulle note di Wagner e di un tango argentino si consuma ancora trionfante la danse macabre che tutti spodesta e tutto ridimensiona.