Diabolik, chi sei? È la domanda finale che si fanno i Manetti bros., arrivati alla conclusione della loro trilogia dedicata allo spietato criminale creato dalle sorelle Giussani. In questa terza parte, ispirata allo storico albo 107 del 1968, Diabolik si deve scontrare con una banda di sanguinari rapinatori di banche che, senza la destrezza del nostro ma grazie a un convincente e massiccio uso di mitra, stanno seminando il panico a Clerville e interferendo con i piani del re del terrore. Oltre a questa rozza concorrenza, che lo fa sembrare più gentiluomo di Lupin, Diabolik dovrà confrontarsi soprattutto con se stesso, con il proprio passato, con le radici che hanno plasmato l’animo nero della spietata pantera del crimine.

La parte centrale del film – e quella che pone questo capitolo finale una spanna sopra gli altri due – è proprio lo scontro-confronto tra Diabolik e Ginko, trasformati dal fato in reciproci confessori. Imprigionati dagli spietati banditi, legati uno di fronte all'altro in una cella di fortuna, Ginko e Diabolik, la legge e la sua nemesi, si guardano dentro, si scrutano oltre le maschere, reali e del super-io, che sono soliti portare, per cercare di capire da dove provengono le avverse vocazioni che gli hanno condotti dai due lati della barricata. Ed è così che si scoprono entrambi figli in lotta con i padri, reali o putativi che siano. Due uomini in cerca di rivalsa, che vogliono, o devono, liberarsi del padre per costruirsi una propria autonoma identità.

Peccato che nel confronto, pur con meno spazio in sceneggiatura, la nostra simpatia sia tutta per Ginko, a cui Mastrandrea regala, dietro l'imperturbabilità e la pipa dell'uomo di legge, la sua sorniona fragilità. È, alla resa dei conti, il personaggio più riuscito dei tre film dei Manetti, quello con un arco narrativo meglio condotto e più compiutamente risolto.

A Diabolik non ha giovato, purtroppo, l’abbandono di Luca Marinelli e l’arrivo del granitico Giacomo Gianniotti, che pur in possesso del physique du rôle, non riesce a dare un po’ di consistenza e di spessore, né un minimo di drammaticità al personaggio. Per fortuna nei flashback lo interpretano i più simpatici ed espressivi Andrea Arru e Lorenzo Zurzolo, aiutando il personaggio a risollevarsi almeno un po’ da una piattezza che rimane però difficile da scalfire.

Insomma, le risposte alla domanda che il titolo del film porta con sé rimangono più nelle intenzioni che nel risultato, e alla fine Diabolik appare sfocato, una sorta di comparsa nelle avventure di cui dovrebbe essere protagonista. Funziona invece molto meglio la controparte femminile, sia Miriam Leone, che ormai indossa la maschera di Eva Kant con una disinvoltura pari solo alle capacità mimetiche del personaggio, sia Monica Bellucci, la cui recitazione straniata si addice all’eleganza radical chic della baronessa Altea.

Per il resto i Manetti bros. continuano e portano all'estremo la loro costruzione scenografica dell'universo di Diabolik, muovendosi tra vecchie certezze (ormai in via Marconi a Bologna ci sono stati più inseguimenti che nelle strade newyorkesi del Braccio violento della legge) e scoprendo sempre nuove location con cui comporre, come in un puzzle, l'architettura anni Settanta di Clerville, che resta la più bella intuizione e la vera grande creazione di questa trilogia.

E se il ritmo non sempre regge, se la tensione a volte latita, se non mancano ingenuità e scivoloni, lo si perdona volentieri ai Manetti, prendendo in cambio il divertimento analogico d’antan, il gioco dei cameo (da Carolina Crescentini a Max Gazzè), lo svago citazionista (con strizzatine d'occhio al nostro cinema di genere e una gustosa apparizione di Barbara Bouchet) che regala questo fumettone bidimensionale e stilizzato. Ma d'altro canto il fascino di Diabolik, sempre uguale a se stesso, non è un po’ anche questo?