Tratta dal romanzo omonimo di Renée Knight Disclaimer – La vita perfetta è la nuova serie di Alfonso Cuarón, con sette episodi è la prima interamente sotto la sua direzione. Un lavoro compatto, straordinariamente ambizioso e tecnicamente sublime che spinge lo spettatore in una casa degli specchi dove il confine tra vero e falso si fa sempre più oscuro e sfumato di episodio in episodio.

In una delle scene iniziali assistiamo ad una cerimonia per l’assegnazione di un importante premio giornalistico consegnato, come vedremo, a Catherine Ravenscroft (Cate Blanchett) per i suoi meriti giornalistici e per la sua capacità di raccontare la realtà con la consapevolezza del potere manipolatorio dei media. La manipolazione, lo sfruttamento della passività dello spettatore o più semplicemente dell’interlocutore, è il meccanismo portante dell’intera serie.

Infatti scopriremo presto che Catherine cela un oscuro segreto, qualcosa di terribile sepolto nel suo passato che all’improvviso salta fuori assetato di vendetta. Poco più di vent’anni prima si era resa colpevole di qualcosa di compromettente durante una vacanza in Italia ed era riuscita a tenerlo nascosto a famiglia e colleghi. Quei pochi giorni a Forte dei Marmi in cui era rimasta sola con il figlio Nicholas, che allora aveva più o meno cinque anni, irrompono nel presente da un momento all’altro quando appaiono un libro, che sembra raccontare passo passo proprio quel misterioso evento, e delle foto, che lasciano poco spazio ad eventuali dubbi.

Disclaimer oscilla tra passato e presente, tenendo però ben separati i due archi temporali, sfruttando luci e colori diversi e spesso chiudendo i flashback con una dissolvenza a nero molto artificiosa. Anche i paesaggi italiani, tra Venezia, Pisa e le spiagge toscane creano un senso di straniamento, un’atmosfera quasi posticcia rispetto al grigiore di Londra. Addirittura ad interpretare magistralmente la Catherine di vent’anni prima c’è proprio un’altra attrice, ovvero Leila George D’Onofrio. Tutti questi espedienti hanno lo scopo di annacquare le immagini di quel passato, rendendole vivide, realistiche, ma anche sospette.

Nonostante il regista messicano dissemini la sua opera di segnali, avvertimenti o disclaimer è impossibile non lasciarsi trasportare dalla narrazione: anche se il trucco è svelato la magia non si esaurisce. Così come quella dei personaggi la mente dello spettatore viene guidata e traviata dalla voce fuori campo che accompagna costantemente la narrazione, rendendo manifesti i pensieri dei protagonisti, per alcuni in prima e per altri in terza persona. Come dei veri e propri campioni di retorica i personaggi convincono il pubblico della correttezza delle loro tesi, della giustificazione della loro rabbia, della correttezza delle loro azioni.

Il tono di Disclaimer è esasperante, sempre sopra le righe, le emozioni strabordano e invadono il campo con una prepotenza magnetica. Se pensiamo all’ultimo film di Cuarón, Roma, che, all’inverso, giocava in sottrazione tenendo la macchina da presa distante dai personaggi, rimuovendo persino i colori, il cambio totale di registro risulta evidente. Può essere interessante affiancare la sequenza del salvataggio dei bambini che stavano per affogare in Roma ed una molto simile che si vedrà in Disclaimer.

Mentre la prima scena è girata con un carrello laterale che appiattisce i personaggi e li tiene a distanza, quasi rimuovendo la concitazione del momento, al contrario, nella serie, la macchina da presa entra addirittura nell’acqua, incollata ai personaggi, costringendo lo spettatore ad una forte partecipazione emotiva.

Così Disclaimer gioca con lo spettatore, lo convince prima di qualcosa e poi del suo contrario, lo intrappola in una tela i cui fili sono verità in contraddizione tra loro, false piste, dettagli che sembrano capitati lì proprio ad indicargli la strada e lo rapisce con la sua tensione drammatica. Le voci si moltiplicano, le immagini si sovrappongono, i pregiudizi si calcificano e le risposte prendono forma da sé costituendo un quadro apparentemente inattaccabile.

Ma alla fine l’unica verità che si materializza nell’opera di Cuarón, attraverso l’intreccio tra le ipocrisie e le meschinità dei suoi personaggi, è soltanto l’evidenza dell’immensa fragilità dell’animo umano.