L'arrivo sugli schermi dell'ultima opera di Roman Polanski ha riacceso l'interesse su un caso giudiziario e politico che periodicamente riappare sugli schermi. Nella Francia di fine diciannovesimo secolo il capitano d'artiglieria Alfred Dreyfus fu riconosciuto colpevole di spionaggio, degradato e condannato alla detenzione da scontarsi nell'Isola del Diavolo. I dubbi e le successive indagini del tenente colonnello Piquart si scontrarono con un muro di omertà tenuto dalla alte sfere dell'esercito e favorito da un forte clima di antisemitismo. Solo dopo la denuncia pubblica di Emile Zola, con il celebre articolo J'Accuse, si riaprì il processo a Dreyfus.
Il caso fu oggetto di lungometraggi dall'inizio degli anni Trenta, con una produzione tedesca diretta da Richard Oswald (1930) ed una britannica (1931) con Cedric Hardwicke nel ruolo del capitano. Quest'ultima era tratta dalla pièce L'affare Dreyfus, scritta nel 1929 da Hans Rehfish e Wilhelm Herzog, che venne rappresentata a Berlino ma tenne una sola serata a Parigi. In anni più recenti Ken Russell ha diretto per la rete HBO il film televisivo Prigionieri dell'onore (Prisoner of Honor, 1991) con Richard Dreyfuss nel ruolo di Piquart, mentre José Ferrer ha vestito i panni dell'ufficiale incarcerato ne L'affare Dreyfus (I Accuse, 1958), sua quinta regia, con sceneggiatura di Gore Vidal da un libro di Nicholas Halasz, filmato in Inghilterra.
Tra le fonti di ispirazione citate da Polanski un posto di rilievo è occupato da Emilio Zola (The Life of Emile Zola). Distribuito nel 1937, impressionò il futuro regista con la scena della degradazione di Dreyfus, evento con cui si apre L'ufficiale e la spia. La pellicola su Zola fa parte delle biografie prodotte dalla Warner Bros. negli anni Trenta, dirette da William Dieterle ed interpretate da Paul Muni. Nello specifico fu la prima produzione targata Warner ad aggiudicarsi l'Oscar per il miglior film. L'introduzione del sonoro (1927) aveva salvato la compagnia e l'aveva introdotta nel novero delle major. Alla metà degli anni Trenta la Warner aveva lasciato alle spalle la Depressione ed era tra le due compagnie (l'altra era la MGM) che non erano entrate in amministrazione controllata. Tuttavia, con una produzione che aveva i punti di forza nei musical (Quarantaduesima strada, il ciclo delle Gold Diggers, con le coreografie di Busby Berkeley) e gangster movie (Piccolo Cesare, Nemico pubblico), e storie basate soprattutto sulle classi lavoratrici, non veniva considerata allo stesso livello delle compagnie più prestigiose. La Universal aveva bilanciato i film di medio livello con le super produzioni (cosiddetti "jewels") nobilitate da fonti letterarie (Il gobbo di Notre-Dame, Il fantasma dell'Opera) fino al successo critico di All'Ovest niente di nuovo; la Columbia aveva preso le distanze dalla Poverty Row di origine grazie alle commedie di Frank Capra come Signora per un giorno e Accadde una notte, ma la Warner era ancora alla ricerca di un prodotto di rilevanza culturale.
L'occasione arrivò con Il sogno di una notte di mezza estate, il cui allestimento alla Hollywood Bowl a cura della California Festival Association era stato il maggiore evento della stagione teatrale 1934. Venne scritturato il regista dello spettacolo Max Reinhardt - autorità indiscussa in campo teatrale - e gli fu affiancato, per gestire le particolarità del mezzo cinematografico, il suo antico allievo William Dieterle. Popolare interprete in Germania con il nome di battesimo Wilhelm (Il gabinetto delle figure di cera, 1923), Dieterle si trasferì negli Stati Uniti nel 1930, curando le versioni americane di pellicole tedesche, poco dopo passò alla regia guadagnandosi la fiducia della Warner Bros. con opere che combinavano intuizioni visive con il ritmo tipico della casa.
Il film ebbe una lavorazione lunga e travagliata, in un enorme teatro di posa che presentava problemi di registrazione e di illuminazione (il direttore della fotografia designato fu sostituito con il veterano Hal Mohr), un incendio che mise in pericolo quasi tutto il backlot e la difficoltà di conciliare i limiti della produzione con la meticolosità di Reinhardt, il quale si esprimeva solo in tedesco. Il risultato finale, di forte impatto visivo, ebbe un ragguardevole riscontro al botteghino ma non riuscì a recuperare i costi. Jack Warner passò sopra all'aspetto finanziario: la compagnia poteva finalmente vantare un prodotto di prestigio, inoltre la MGM seguì a ruota l'esempio con Giulietta e Romeo (Romeo and Juliet, 1936). A risanare le casse pensò la versione sonora di Capitan Blood, diretta dall'emigrato ungherese Michael Curtiz (Mihaly Kertesz) ed interpretato dallo sconosciuto tasmaniano Errol Flynn. L'anno successivo la produzione di punta fu Avorio nero, dal successo letterario di Harvey Allen. William Dieterle, cui era stata affidata la regia, venne sostituto prima dell'inizio delle riprese da Mervyn LeRoy ed assegnato a dirigere la star Paul Muni, con cui aveva già lavorato in Il Dottor Socrate (Dr. Socrates, 1935).
Nato Meshilem Meyer Weisenfreund in Galizia nel 1895, giunto negli Stati Uniti nel 1902, aveva calcato le scene fin da bambino, esibendo doti impressionanti di immedesimazione unite ad una capacità trasformistica accentuata dal trucco. Muni era passato dal teatro Yiddish a Broadway per approdare al cinema agli albori del sonoro, imponendosi in forti caratterizzazioni drammatiche grazie alla presenza potente ed espressiva (Scarface, Io sono un evaso). L'aspirazione a variare nei ruoli portò Muni a cimentarsi con personaggi storici e il copione di Sheridan Gibney e Pierre Collings lo convinse ad interpretare Louis Pasteur, nonostante i dubbi dei dirigenti Warner sulle potenzialità cinematografiche del soggetto. Muni difese l’approccio tanto da richiedere gli stessi autori per la sceneggiatura. Hal Wallis, capo della produzione, cedette su questo punto ma il budget fu drasticamente tagliato: lo scenografo Robert Haas dovette convertire scenografie già approntate per altre pellicole, come il laboratorio da La maschera di cera (Mystery of the Wax Museum, 1933). Nonostante le restrizioni - cui si aggiunse una promozione in tono minore - il film andò incontro ad un successo di pubblico e critica. Mentre Avorio nero lottava per rientrare nei costi, a sistemare i conti della Warner furono di nuovo Michael Curtiz ed Errol Flynn con La carica dei seicento (The Charge of the Light Brigade) e La vita del dottor Pasteur, cui si concentrarono le lodi della stampa specializzata.
Alla premiazione degli Oscar, nonostante i premi maggiori toccassero alla MGM (Il paradiso delle fanciulle / The Great Ziegfeld miglior film) e alla Columbia (Frank Capra miglior regista per E' arrivata la felicità / Mr. Deeds Goes to Town), la Warner fece la parte del leone: Avorio nero vinse in quattro categorie, tra cui migliore attrice non protagonista a Gale Sondergaard, La carica dei seicento collezionò la statuetta per l'aiuto regista (Jack Sullivan) e Paul Muni venne dichiarato miglior attore per La vita del dottor Pasteur, a cui andarono anche i riconoscimenti per il soggetto e la sceneggiatura (Gibney e Collings). Il trionfo di Muni fu completato dalla Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia. A fronte di questi risultati la Warner confermò il medesimo team regista/protagonista per una nuova biografia e la elesse produzione di punta per il 1937, con il titolo The Life of Emile Zola (in Italia Emilio Zola). Stavolta non ci furono ristrettezze di budget: una cinquantina di set vennero eretti per rappresentare Parigi del diciottesimo secolo, mentre l’isola Goff presso Laguna Beach funse da Isola del Diavolo. La prima parte del film, dove si delinea la carriera di Emile Zola dagli inizi in povertà fino alla ascesa con romanzi caratterizzati dalla meticolosa analisi dei comportamenti umani, scorre nei canoni del genere; dove il film acquista maggiore spessore è nel delineare l'affare Dreyfus. La scansione degli avvenimenti non segue rigorosamente la storia (la riabilitazione di Dreyfus avvenne quattro anni dopo la morte di Zola) ma serve a far emergere chiaramente l'assunto: come Zola si pose contro le istituzioni e la maggioranza dei francesi, avendo tutto da perdere, per divulgare l'ingiustizia subita da Dreyfus. I due processi che si tennero contro Zola nel film sono riuniti in uno, al termine del quale Muni si produce nel suo pezzo forte: il discorso di denuncia davanti alla corte.
Mentre Polanski ed il suo autore Robert Harris evidenziano immediatamente il clima antisemita nel quale divampò l'affare Dreyfus, la Warner si mosse con la massima prudenza, evitando circostanze che potessero danneggiare la circolazione della loro produzione principale nei mercati esteri (nonostante questo, il film fu distribuito in Francia solamente nel 1952, nel cinquantesimo della morte di Zola). In più di una occasione gli sceneggiatori riuscirono ad aggirare i vincoli: quando gli ufficiali dello Stato Maggiore francese consultano lo stato di servizio di Dreyfus si vede chiaramente l'iscrizione "religion: Jew" (ebreo), mentre la sequenza in cui i libri di Zola vengono dati alle fiamme (circostanza che ricorre anche nel film di Polanski) richiama quanto stava accadendo in quegli anni in Europa. Benché conservi la fama di compagnia con peculiarità (stili e tematiche) prettamente americane, nella fila della Warner Bros. si trovavano sovente talenti d'oltreoceano ed Emilio Zola ne è un'attestazione esemplare: regista, produttore esecutivo (Henry Blanke) e uno degli autori di soggetto e sceneggiatura (Heinz Herald) venivano dalla Germania, lo scenografo (Anton Grot) e l'altro autore (Geza Herczeg) erano originari della Polonia, il direttore della fotografia Tony (Gaetano) Gaudio era nato a Roma, mentre Vienna era la città natale del compositore Max Steiner, del costumista Ali Hubert e di Joseph Schildkraut, l'interprete di Dreyfus.
Figlio d'arte (il padre Rudolph era fra i più acclamati interpreti dei palcoscenici viennesi), debuttò con Max Reinhardt nel 1917 e recitò in Europa e negli Stati Uniti prima di stabilirsi nel continente americano a partire dal 1920. La figura elegante e aristocratica lo rese adatto per i ruoli in costume e la parte di Giuda ne Il re dei re (The King of Kings, 1926) gli guadagnò i plausi della critica, ma l'impegno primario rimase il palcoscenico (memorabile il suo Liliom a fianco di Eva Le Gallienne): nel censimento militare del 1942 indicò come sede di lavoro 'ogni teatro nel mondo'. Gli altri interpreti formavano l’usuale stock company di navigati caratteristi della Warner: Gale Sondergaard (Lucie Dreyfus), Erin O’Brien Moore (Nana), Donald Crisp (avvocato Labori), Henry O'Neill (Piquart), Vladimir Sokoloff (Paul Cezanne), Harry Davenport, Louis Calhern, Ralph Morgan. Morris Carnovsky, esponente di spicco del Group Theatre, fece il suo debutto cinematografico nella parte di Anatole France. All'uscita la pellicola raccolse recensioni ancora più favorevoli del predecessore. Il critico del New York Times Frank Nugent (futuro sceneggiatore per John Ford) lo definì "il migliore film storico mai realizzato e, allo stesso tempo, la più grande biografia portata sullo schermo" e aggiunse che i fratelli Warner "i più disinvolti nel trattare la storia a Hollywood, avevano pagato il loro debito con la verità nel produrre Emile Zola". John Grierson lo definì "uno dei grandi film dell’anno...comincia come un film e finisce come una esperienza". Alla cerimonia degli Oscar svoltasi il 10 Marzo 1938 la Warner giunse con un solo titolo ma fu sufficiente: Jack Warner salì per la prima volta sul palco a ritirare la statuetta per il miglior film (gesto che avrebbe ripetuto per Casablanca e My Fair Lady), Heinz Herald e Geza Herczeg, assieme a Norman Reilly Raine, ottennero il premio per la sceneggiatura e Joseph Schildkraut fu meritatamente proclamato migliore attore non protagonista.
Basterebbe la scena - concepita dallo stesso interprete - in cui Dreyfus esamina incredulo la lettera di scarcerazione per giustificare la scelta dei giurati dell'Academy. Il ciclo dei profili storici con protagonista Paul Muni si chiuse con Juarez - il conquistatore del Messico (1939). La Warner affidò a Dieterle altri due biografie, stavolta interpretate da Edward G. Robinson (Un uomo contro la morte / Dr. Ehrlich's Magic Bullet e La vita di Giulio Reuter /A Dispatch from Reuters, entrambe del 1940), senza riuscire a ripetere il successo delle opere precedenti. Nel dopoguerra sia Muni che Schildkraut diradarono le apparizioni sullo schermo per dedicarsi al teatro e frequentare i set televisivi. Muni venne diretto da Elia Kazan nella tournée londinese di Morte di un commesso viaggiatore (1949) e portò al successo a Broadway il dramma E l'uomo creò Satana (Inherit the Wind, 1955). Nel 1959 uscirono due film che li vedevano protagonisti. Addio dottor Abelman! (The Last Angry Man) fu l'ultima pellicola interpretata da Muni e gli valse la quinta candidatura all'Oscar (a tutt'oggi è l'unico interprete ad essere stato candidato per il primo e l'ultimo ruolo cinematografico); afflitto da cattiva salute Paul Muni si ritirò poco dopo e morì a Montecito (California) il 25 agosto 1967. Ne Il diario di Anna Frank (The Diary of Anne Frank) Joseph Schildkraut replicò sullo schermo il ruolo di Otto Frank, che tanti consensi gli aveva fruttato a Broadway. Schildkraut si spense a New York il 21 gennaio 1964, poche ore dopo le prove di uno spettacolo musicale. Il pubblico lo ammirò per l'ultima volta nel ruolo di Nicodemo ne La più grande storia mai raccontata (The Greatest Story Ever Told, 1965).
Al di là dei film per la Warner, William Dieterle firmò per la Rko una magnifica versione de Il gobbo di Notre Dame (The Hunchback of Notre Dame, 1939) e il racconto morale L'oro del demonio (All That Money Can Buy, 1941). Negli anni Quaranta fu al servizio di David Selznick per film costruiti a misura su Jennifer Jones (moglie del produttore) ma in una occasione realizzò un capolavoro: la fantasia romantica Il ritratto di Jennie (Portrait of Jennie, 1948). Dieterle proseguì la carriera in Germania, dove era rientrato nel 1958, e morì in Baviera l'8 dicembre 1972.