Il diciassettenne Matías arriva a Duino dall’Argentina per frequentare il Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico. È timido, insicuro e timoroso di alzare lo sguardo al futuro. L’incontro con Alexander gli darà coraggio ma lo segnerà profondamente per il resto della vita. Venticinque anni dopo, la loro amicizia è narrata nel film che lo stesso Matías sta finendo di girare. Ma l’insicurezza e la paura tornano a turbare il regista, che credeva assai più semplice trasformare la storia del suo primo amore in un’opera cinematografica.
Di certo una delle fortune di un cineasta è la possibilità (al netto degli scogli produttivi) di rivivere il passato e rimetterlo in scena grazie al proprio mestiere, anche se ciò non è un processo lineare e può essere talvolta molto doloroso.
Il gioco di specchi tra Matías e il personaggio del suo film riflette meta-cinematograficamente la situazione di Juan Pablo Di Pace, che di Duino è protagonista ma anche sceneggiatore, co-montatore e co-regista insieme ad Andrés Pepe Estrada: Di Pace ha scelto la propria vita come soggetto del suo lungometraggio di debutto dietro la macchina da presa per raccontare quei sentimenti di incompiutezza e di potenzialità inespressa che hanno caratterizzato e caratterizzano tante “storie mancate” di giovani omosessuali, prigionieri di soffocanti culture etero-normative e di solidificati pregiudizi sociali.
Il giovane Matías si trova catapultato in un contesto multiculturale in cui è finalmente libero di esprimersi (“Qui ho una libertà che là non avevo”) e di essere sé stesso (“Mi sento più me stesso qui”, dice all’amico Paolo venuto in Italia a fargli visita). Ma i retaggi culturali sono duri da scardinare e così al ragazzo manca il coraggio di fare proprio quel passo che potrebbe aprirgli la strada verso l’amore: una carezza sul viso, un bacio che resta soltanto immaginato e confina un futuro diverso nell’àmbito della fantasia.
È chiaro come Di Pace riponga una grandissima fiducia nel cinema, visto come strumento sia di comunicazione della verità, sia di espressione della realtà senza filtri: da un lato le riprese filmate da Paolo con la videocamera rivelano a chi le guarda la reale – seppur inespressa – dinamica relazionale tra i giovani Matías e Alexander; dall’altro il regista Matías cerca di elaborare questa sorta di lutto interiore, dapprima trasformando la propria storia in un film e poi tentando di cancellare in extremis il suo enorme rimpianto provando a cambiare all’ultimo momento una scena importante mentre sul set si stanno dichiarando concluse le riprese. Se gli sguardi di Matías verso Alexander appaiono inequivocabilmente rivelatori dei sentimenti del ragazzo, lo sguardo della madre mentre osserva questo “nuovo” figlio materializzarsi davanti ai suoi occhi ne rivela la totale comprensione della situazione.
È dunque notevole come, al culmine della sofferenza di Matías, vi sia una meravigliosa scena tra madre e figlio che non si limita a commuovere lo spettatore per la delicatezza con cui è scritta ma si carica di una valenza di denuncia sociale contro tutti quegli schematismi che per generazioni hanno imprigionato la sensibilità e la personalità di giovani omosessuali.
Non è un caso infatti che i destini di Matías e Alexander siano così radicalmente opposti: l’uno pienamente realizzato e di fatto in pace con sé stesso, l’altro vittima della necessità (altrui) di un adattamento ai canoni e alle convenzioni sociali. Ma non è tanto questo a rendere straziante il confronto finale tra i due amici quanto piuttosto la disparità di autocoscienza e consapevolezza che li separa: il sogno ricorrente di Alexander è istantaneamente compreso da Matías in tutte le sue sfaccettature e nei suoi significati psicanalitici profondi.
Il tempo perduto non si può ritrovare, ma si possono inserire nei titoli di coda di un film le scene reali di cui si era mostrata la ricostruzione; l’amore mancato non si può rigenerare, ma si può conservare serenamente nelle nostre vite il suo passaggio, rapido come un battito di ciglia.