Dopo aver appassionato ed unito il grande pubblico con la ieraticità contemplativa e colossale di Dune - Parte uno, Villeneuve realizza il secondo capitolo elevando il livello della spettacolarità. Dune - Parte due, libero dall’impellenza di dover presentare agli spettatori un universo nuovo e complesso, può lasciare briglia sciolta all’azione che prende vita in combattimenti all’ultimo sangue, battaglie e azioni di guerriglia ambientate tra i colori densi del deserto del pianeta Arrakis. Un piacere per gli occhi che non si ferma all’estetica ma restituisce la profondità e l’ampiezza tematica del romanzo di Frank Herbert. Villeneuve dà vita ad un’opera nuova e ardita, ma al contempo saldamente radicata nella tradizione.
Il nucleo del film ruota ancora attorno all’enigmatico Paul Atreides (Timothée Chalamet) che, terminato il percorso di crescita verso l’età adulta messo in scena nel primo film, adesso si trova a dover prendere delle decisioni, a dover scegliere riguardo il suo destino, a dover fare i conti con la brutale natura della realpolitik. Paul, infatti, è identificato dai Fremen come il Lisan al Gaib, un messia proveniente da un altro mondo che li dovrebbe condurre verso quello che loro chiamano paradiso verde. Si tratta di un ruolo che il protagonista non vuole accettare, di un fardello che non vuole accogliere: capisce bene come sia in gioco il potere nella sua natura più inquietante e manipolatoria, un potere che consuma e distrugge.
Il ruolo del fato è peculiare nel mondo di Dune, un’istanza implacabile che piega gli eventi in senso autoritario e desolante. Fin dalla prima parte si manifestava nei sogni, nelle visioni delle Ben Gesserit, all’improvviso, costringendo la narrazione a balzi temporali dalla funzione oracolare. La struttura dei due film assume così una forma fluida, in cui costantemente le allucinazioni di Paul anticipano i fatti e lui, come un moderno Edipo, si batte affinché non si realizzino, in una lotta impari contro il destino.
Per quanto Villeneuve ci tenga a codificare l’immaginario dai colori di un freddo metallico della casata Harkonnen con il male più assoluto e lo contrapponga prima a quello dai colori caldi della casata Atreides e poi a quello a tinte acquose dei Fremen, le sfumature etico-morali sono più complesse. Infatti, le differenze sono più sottili e la melma dell’intrigo non risparmia nessuno, la finzione richiesta dalla politica spolpa l’integrità umana che si deteriora fino a sgretolarsi precipitando nel disumano. In questo scenario il personaggio di Paul sembra accogliere in sé tale complessità. La mimica spesso criptica dell’ottimo Chalamet, gli assegna un carattere ambiguo che pone un ulteriore schermo tra questo e il pubblico. Un’ambiguità che sta anche nelle sue intenzioni, a metà tra l’amore per Chani (Zendaya) e il desiderio di vendetta verso gli Harkonnen.
Il film è attraversato da una serpeggiante sensazione di inquietudine su cui la regia gioca un ruolo decisivo prediligendo, molto più spesso di quanto ci si aspetterebbe da un film ambientato in paesaggi di tale estensione, inquadrature strette, primissimi piani o, alle volte, piani larghi che tagliano il cielo, schiacciando i personaggi sulle dune di sabbia. Il deserto di Arrakis mostra dunque un carattere quasi claustrofobico, nonostante la sua maestosità che in sala dà quasi le vertigini. A questi elementi si affianca la solennità delle musiche di Hans Zimmer e la tensione decisamente metafisica che plasma il racconto. Il risultato non ha nulla di arioso o spensierato, ma è costantemente cupo e angosciante.
L’universo creato da Frank Herbert e immaginato da Villeneuve ha un carattere fortemente politico, intrecciato a doppio filo col presente, con cui intavola un dialogo serrato. Le visioni terzomondiste, le implicazioni ecologiste, la riflessione sul potere che prevede anche nel futuro più lontano una forma di organizzazione di stampo feudale, sono tutti elementi che chiamano in causa con forza e piglio critico il reale nella sua sostanza. In tal senso lo sguardo di Villeneuve è decisamente disilluso e pessimista contrariamente a quanto mostrato nel 2016 con un film come Arrival, in cui si è preso il rischio di scommettere sull’umanità. Quella scommessa, forse, nella mente del regista oggi è stata già persa e la coltre cupa e polverosa che avvolge i suoi Dune ne è la prova.
Le prime due parti di Dune sono caratterizzate da una disillusione pirotecnica, un pessimismo spettacolare che unisce gli effetti speciali da blockbuster ad un'aura contemplativa e riflessiva aleggiante su un mondo allo sbaraglio. In tal senso il deserto di Arrakis, che potrebbe essere il nostro pianeta in un futuro sempre più prossimo, è uno spazio psichico, un teatro inconscio in cui possono trovare manifestazione ansie e angosce di un presente svuotato di prospettive e speranze.
Villeneuve regala dunque al pubblico una perla del cinema di fantascienza, un’opera al contempo mastodontica e raffinata che raggiunge forse il culmine delle possibilità nell’unione tra cinema d’autore e commerciale.