Il trauma della morte si rivela nella mancata reificazione del lutto: “Non me li hanno fatti vedere”. Fino a poco prima, per di più in quella che scopriremo essere la loro ultima serata nella terra dei vivi, Paolo Sorrentino ci ha fatto vedere i suoi genitori come due corpi pieni, affamati, ingordi di vita. È un cinema ingordo, quello di Sorrentino, che di fronte a È stata la mano di Dio, il più asciutto e dolente dei suoi lavori, mette in chiaro quanto il suo obiettivo sempre perseguito e finalmente espresso con il dolore dei sopravvissuti è tramandare la lezione dei genitori.
Nell’affollata galleria di vecchi sulla frontiera della morte (i Pisapia all’ultimo minuto, Titta che finisce nel cemento, Geremia, il Divo vampiro, Cheyenne, Jep a bordo di trenini senza destinazione, Fred e Mick, Berlusconi, i papi con troppo passato per indicare un futuro), i coniugi Schisa sono la vita. La erompono, la vita. Con tutte le sue contraddizioni, tradimenti compresi. C’è una radicale e naturale cesura nel film, con una prima parte che, conoscendo i fatti noti perlomeno agli spettatori più informati, non è tanto una sequela di presagi funesti quanto una cerimonia degli addii che Sorrentino sembra non voler mai concludere.
È un lungo capitolo che somiglia a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, con l’aneddotica sul parentado, il quotidiano degli affetti, i tormenti privati, i pranzi e le cene. Ma il piacere di un racconto affollato di personaggi mai dimenticabili (la memorabile zia “matta” Luisa Ranieri, la matrona impellicciata che si abbuffa di mozzarelle, lo zio Renato Carpentieri che aspetta Maradona come un messia, l’anziano fidanzato della cugina con la voce metallica) è la chiave con cui Sorrentino svela il suo tentativo, disperato e struggente, di tenere in vita il più possibile un mondo che è morto con i suoi genitori, interpretati dai meravigliosi Toni Servillo e Teresa Saponangelo.
Un mondo che piomba in un perenne inverno del cuore, dove il sole è solo promessa di albe dopo viaggi verso il termine della notte. In questo senso È stata la mano di Dio è la dichiarazione di fiducia più commovente sul potere del cinema come seduta spiritica e magica illusione, luogo delle ombre che si rifanno materia. D’altronde, se non è “solo un trucco” come le giraffe, potrebbe essere tutto un gioco, dagli scherzi telefonici alle arance in aria fino al mascheramento dell’orso (per inciso: non è casuale che sia il meno zoologico dei film di Sorrentino, in cui l’unico animale significativo è finto), con la voce di Fellini a regolare il battito di un cuore squarciato dalle parole furibonde di un altro maestro, Antonio Capuano, che sul ciglio del mare che bagna Napoli mette in guardia sulla trappola della speranza.
Il romanzo di formazione che sottende e postula l’intero film è l’approdo di tutta un’opera, per la prima volta alle prese con un giovane, anima in fieri e corpo plasmabile che si ritrova plasmato dall’inattesa piega degli eventi: Fabietto, da cocco della casa con un nome che quasi ne impedisce la crescita, deve diventare Fabio, farsi autore e raccontare la sua storia (Filippo Scotti, magnifico). Ed è una storia, la sua, che sgorga proprio dal trauma della mancata epifania dei suoi defunti; e che coincide con il dramma di una città, Napoli, bloccata nella crescita, nell’inattualità, nell’autocontemplazione, nella paura di cambiare.
Ragionando sulla “napoletanità” non come categoria dello spirito nata da una autentica nostalgia collettiva, Sorrentino cerca continuamente le tracce del folklore alla luce del privato e viceversa, facendo vedere il mistero di Napoli: dal munaciello già eternato da Matilde Serao a San Gennaro incarnato (Enzo Decaro che, oltre a essere un terzo della Smorfia con il nume tutelare Massimo Troisi e Lello Arena, battezzò l’assistente alla regia Sorrentino in Ladri di futuro) fino alla santità laica del salvatore Maradona convocato nel titolo passando per l’iniziatica nobildonna decaduta.
Se è vero che per ogni napoletano Napoli si confonda col suo problema personale, per Fabietto la persistenza del passato nel presente determina la sua incapacità di vivir desviviendo, come la sua città si culla nella lacerazione di una mitica armonia perduta. È stata la mano di Dio è un’altra rilettura del testo-guida di Sorrentino, Ferito a morte di Raffaele La Capria, con l’incipit rincorre la spigola del romanzo già nel fondale marino all’inizio di L’uomo in più: è il racconto di una fuga, di una lacerazione che mette alla prova il dovere a non disunirsi, di una partenza inevitabile per poter pensare finalmente a quelle che il fratello di Fabietto chiama “le cose felici”.
Perché l’inverno è tale solo nello sguardo di un ragazzo tenuto in sospeso dall’estate, che solo tuffandosi nella spaccatura può nuotare al di là del Vesuvio, seguendo appieno la lezione dei genitori. “Se non hai le idee ti serve un dolore” e allora il ragazzo diventa narratore di sé, si abbandona finalmente alle lacrime che lo rendono uomo, e la trenodia lascia via via il posto alla celebrazione della vita grazie all’esercizio dell’intelligenza del cuore, un raggio di sole che illumina il finale. “E tu sai ca’ non si sulo”, canta qualcuno a Fabietto, al Paolo che fu.