Nel 1966 un giovane Jerzy Skolimowski, che aveva debuttato alla regia l'anno precedente con Walkower, per la prima volta prova l'esperienza di piangere in una sala cinematografica. Il film che gli aveva provocato tale emozione era niente meno che Au hasard Balthazar. Cinquantasei anni dopo il nuovo film del regista polacco, EO, riprende l'epopea bressoniana di un asinello cercando di catturare la stessa carica emotiva che l'aveva portato alle lacrime. Sotto una luce stroboscopica rosso sangue si staglia il corpo dell'asinello sdraiato a terra.

Una giovane donna lo abbraccia, pronuncia il suo nome e con un bacio lo resuscita. L'atto di trascendenza su cui si apre il film è però interrotto dallo scrosciare degli applausi degli spettatori del circo. Fin da subito Skolimowski ammette l'irreplicabilità del capolavoro di Bresson e privilegia la performatività del circense asinello, una struttura episodica più vicina a Rossellini e un'esuberanza stilistica godardiana. Presto separato dall'amata addestratrice Kasandra, melanconico del paradiso perduto, l'asinello Eo incomincia una catastrofica peregrinazione per l'Europa, dalla Polonia al Lazio.

Skolimowski segue con amorevole simpatia le vicende del proprio asinello riprendendolo spesso nella sua interezza animale. La concretezza dei suoi versi, della sua pelle e del suo volto si scontrano di continuo con il trattamento che subisce dall'agire umano. Chiamato Eo come il suono che emette, la sua vita è segnata dall'assenza del linguaggio, trasformato passivamente in puro significante. Heidegger definì gli animali come poveri di mondo. Eppure dell'asinello vengono evidenziati sogni e timori, mentre dell'umano non v'è traccia di innocenza ma solo violenza e decadenza, come dimostrano rispettivamente gli episodi della partita di calcio e del palazzo borghese. Esiliato dallo spettacolo originario, protagonista suo malgrado di un'epopea di soprusi e pregiudizi, in brevi intermezzi onirici vediamo Eo sognare una carezza di Kasandra, provare timore per delle volpi, rimpiangere la libertà dei cavalli. Abitare il mondo.

Il punto di vista dell'asinello, assunto dalla macchina da presa in alcune sequenze, rimane sempre legato allo sguardo dello spettatore. Il campo del dettaglio dell'occhio di Eo trova il suo controcampo in una distorta soggettiva che concretizza il lavoro della regia e dello spettatore (dimensione metacritica che ci pare assente nella recente produzione animalista, vedi ad esempio Gunda di Victor Kossakovsky). Skolimowski stesso nelle interviste cita l'effetto Kuleshov.

La soggettiva, piuttosto che rimandare in maniera univoca a un oggettivo sognare dell'asino, fa trasparire il desiderio spettatoriale di connessione con i sogni dell'asinello, il comune destino degli esseri viventi. Il montaggio rende quindi possibile trattenere un velo di mistero sul mondo dell'asino e allo stesso tempo rende impossibile una totale padronanza dell'umano di tale mondo. Attraverso il mistero dello sguardo di Eo siamo ricondotti al mistero dell'alterità, di ogni sguardo altro che chiede riconoscimento e dignità. E alla profonda ingiustizia che subisce ogni animale, umano o asino che sia, trattato come puro significante senza diritto di voce o di verso.