L’acqua scorre verso il basso. Nel villaggio di Mizubiki – piccolo paese sulle montagne vicino a Tokyo in cui da generazioni gli abitanti vivono in simbiosi con le leggi della natura – l’inverno sembra che stia per finire, la neve sopravvive a chiazze, i laghi ghiacciati iniziano a sciogliersi e l’acqua dei torrenti scorre, sempre verso il basso. Takumi – tuttofare del villaggio – la raccoglie in taniche per gli abitanti, ma da quando due funzionari di Tokyo provano a presentare un progetto di “glamping” (una specie di camping di lusso) questo e altri equilibri sembrano messi drasticamente a rischio.
“L’acqua scorre verso il basso” è anche la frase che dice l’anziano sindaco del villaggio ai due funzionari cercando di dimostrare nel modo più pacifico possibile – sia nei confronti dei forestieri, sia nei confronti dei compaesani poco affini alla mediazione – come funziona un certo sistema di responsabilità. L’acqua scorre sempre verso il basso, nel senso che certe decisioni prese “in cima” (della montagna potremmo dire) ricadono costantemente a valle.
Dopo l’exploit dei suoi ultimi film – premi a Berlino per Il gioco del destino e della fantasia, più Cannes e Oscar per Drive My Car – Ryusuke Hamaguchi in Evil Does Not Exist cerca ancora i rapporti sociali, aggiungendo alle differenze più conflitti, più politica e un discorso universale sulla natura come bene comune da un lato e come dato ontologico dell’essere umano dall’altro. Un film più piccolo solo nella forma che come nei precedenti cerca di definirsi in una struttura netta, capitoli o atti che siano.
La montagna della metafora esposta dal sindaco sembra essere anche la struttura di un film che parte dal basso, verso “dove scorre l’acqua” (raccolta proprio dal protagonista nella prima sequenza), ma anche da dove si possono guardare gli alberi spiccare verso il cielo o quasi tuffarsi sotto terra con la macchina da presa. Parte dal basso anche nel senso che parte dai cittadini, dal paese, per poi arrivare ai funzionari e alle loro alterità con dei passaggi di punti di vista degni di un film sui grandi conflitti che vuole chiamarsi universale per quanto geograficamente determinato con precisione assoluta (si veda, per prendere due titoli recenti, ad As Bestas e Animali selvatici).
Il cinema di Hamaguchi, quello che si manifesta nei silenzi, nelle dispersioni e nelle deviazioni, quello che trova la sua essenza nei galleggiamenti lievi, c’è tutto. Così come i suoi paradossi. Se Drive My Car, un film quasi del tutto fatto di dialoghi, si fondava attorno al primato del gesto sulla parola, in Evil Does Not Exist gli incessanti movimenti (lunghi camera-car sui boschi infiniti) fondano un primato della stasi sul movimento, primato della conservazione sul progresso, della difesa sull’attacco, della natura sul resto. Il tutto affidandosi a un percorso sempre affiancato alle sue interruzioni, gli arresti (le stasi per l’appunto), come le musiche di Eiko Ishibashi che saltano con ricorrenza in un montaggio spaesante e in un crescendo drammatico.
In Evil Does Not Exist c’è la pace della natura e il suo conflitto, come i cervi selvatici, innocui ma minacciosi in soli due momenti: quando sono feriti e quando difendono i figli. E in questo film è complesso capire chi sia il ferito e il ferente, chi sia il figlio e chi sia il genitore, così come il prezzo della legittima difesa, di un’idea oltre che di un’eredità, ma anche di un istinto. Hamaguchi, avanzando e interrompendosi, spiazza e tradisce. L’acqua scorre sempre verso il basso.