Femmine folli si è guadagnato subito un posto nella storia del cinema come “film maledetto”, segnato in fase di produzione e durante le riprese da una spesa in costante, vertiginoso aumento e da un destino difficile al montaggio, contrassegnato da continui tagli e rimaneggiamenti. Mentre però la Universal cercava di volgere a proprio vantaggio (per quanto possibile) l’escalation dei costi, pubblicandoli periodicamente su un tabellone in Times Square per creare aspettativa sulla nuova opera del regista austriaco, la gran parte delle sezioni espunte nel corso dei vari interventi andava definitivamente perduta.
Il restauro operato dal Moma e dal San Francisco Silent Film Festival sulla versione acquistata nel 1936 non presenta infatti nuove sequenze ritrovate, ma ristabilisce l’ordine originale delle scene e sostituisce le didascalie inserite nel 1928 (quando la Universal rimontò il film per una nuova distribuzione) con i testi originali.
La vicenda editoriale del terzo film di Eric hvon Stroheim è piuttosto nota ma suggestiva e indicativa del gigantismo del suo autore: la prima versione consegnata dal regista alla casa di produzione constava di 31 bobine (corrispondenti a una durata di oltre 6 ore!), che la Universal ridusse subito a 14 per la prima newyorkese del 1922. Seguirono altri tagli, in parte voluti dal New York State Censorship Board, in parte dalla produzione stessa che cercava di rendere il film più appetibile per il pubblico e rientrare così almeno parzialmente delle folli spese (“il primo film da un milione di dollari!”) che Stroheim aveva richiesto per ricostruire la Place du Casino di Montecarlo tra le colline della San Fernando Valley.
Il film infatti si svolge tra Montecarlo e Villa Amorosa, una residenza nei dintorni affittata dal sedicente conte fuggito dalla Russia Sergius Karamzin (Stroheim, lascivo e scostante) e dalle sue due "cugine” Olga (Maude George) e Vera (Mae Bush) per poter frequentare e truffare ricchi, nobili e diplomatici, senza trascurare nemmeno la domestica, da cui Sergius si fa donare tutti i risparmi in cambio di una promessa di matrimonio che non ha alcuna intenzione di mantenere.
Nei vari rivoli di un intreccio criminale che si allarga come l’abbraccio di una piovra, il corpo attoriale di Stroheim riesce a imporsi con la sua presenza scenica (in uniforme, il monocolo sull’occhio destro) e con le sue espressioni ambigue che paiono ammiccare agli spettatori per cercare in loro una sordida complicità. Degne di nota anche le performance di Bush e George, perfettamente “in parte” nel disegnare figure aristocratiche fasulle.
A sovrastare tutto è comunque la straordinaria regia di Stroheim: da ogni inquadratura si evince uno studio meticoloso della composizione figurativa, con una valorizzazione della profondità di campo tale da metterci in ammirazione sia dell’avampiano sia dello sfondo. La fotografia è magistrale, con uno studio sulla luce affatto particolare: si vedano ad esempio i raggi di sole che filtrano dalla finestra della casa del falsario Vannucci, con quel peculiare effetto che rende percepibile il pulviscolo della penombra, oppure le varie ombre e le figurazioni che le loro proiezioni creano sui muri delle stanze. Le colorazioni restituite dal restauro sono sorprendenti, specialmente quelle notturne, e meritano un plauso di ammirazione gli effetti di colore dell’incendio, davvero spettacolari.
Non si può non menzionare il montaggio che, fluido nelle sequenze descrittive e forsennato in quelle drammatiche, riesce a coinvolgere lo spettatore nell’azione, resa comunque avvincente nei momenti clou anche da un ripetuto cambio di prospettiva, come avviene nella magnifica sequenza del temporale. Questa continua variazione di ritmo, adeguatamente valorizzata dall’accompagnamento dal vivo dell’orchestra del Teatro Comunale diretta da Timothy Brock (che ha completato e orchestrato la partitura originale di Sigmund Romberg), è certo uno degli strumenti usati da Stroheim per avvincere il pubblico.
Un ulteriore elemento che vale la pena sottolineare è l’ironia che, pur in un film estremamente drammatico, non manca: la didascalia finale (“prima o poi le mogli americane […] capiranno che l’uomo giusto per la donna americana è l’uomo americano”) è la conclusione del libro che la donna corteggiata dal conte sta leggendo, ovvero “Foolish Wives” di Erich von Stroheim...