L'uscita in sala della versione restaurata di Fino all'ultimo respiro ci consente di proporre - come di consueto nel caso del progetto Cinema Ritrovato al Cinema - un'antologia critica d'epoca e fino ai nostri anni.

 

À bout de souffle ci rivela un talento incontestabile, veramente grande. Jean-Luc Godard, non ancora trentenne, è un ‘animale da cinema’. Ha il cinema nel sangue. [...] Sul piano tecnico nessuno, con meno di trent’anni, aveva recentemente abbattuto con tale maestria i vecchi apparati. Godard ha gettato nel fuoco tutte le grammatiche del cinema e le sintassi del film. Tenuta in spalla da Raoul Coutard, mossa continuamente dai suoi passi e dal suo respiro, la macchina da presa non resta mai immobile. Il suo perpetuo movimento nelle scene per strada si accorda con la costante animazione e con il traffico di Parigi. [...] Un montatore qualificato non potrebbe vedere À bout de souffle senza trasalire: un raccordo su due è scorretto. Ma che cosa importa, questi non sono errori d’ortografia, ma modi stilistici. Qualcosa come impiegare in letteratura la lingua parlata. […] Non sarebbe giusto ridurre questo primo film soltanto all'applicazione della ricetta ‘gli estremi si toccano’, al puro ringiovanimento di una vecchia mercanzia, grazie a una nuova confezione. La situazione drammatica ha fatto la sua parte. Che ci piacciano o no, i personaggi non sono convenzionali, e possiedono un dono ben raro: la vita. […] Jean-Luc Godard, taciturno dietro gli occhiali scuri, pare lui stesso chiuso a doppia mandata sotto la sua insolenza (o timidezza?). La sua ambiguità non è facile a penetrarsi. È sincero o no? Due mesi di riflessione non mi hanno ancora permesso di risolvere questo dilemma. Che potrebbe formularsi anche così: abbiamo visto nascere un nuovo grande autore cinematografico? O siamo stati abbagliati dal brio di un altro eccellente talento? L’una cosa esclude sempre l’altra?

Georges SadoulQuai des brumes 1960, “Les Lettres Françaises”, n. 18, marzo 1960


Quando siamo usciti dalla prima proiezione di À bout de souffle, nel marzo 1960, mi ricordo che abbiamo parlato tutti molto forte ritrovandoci nell’avenue Hoche. Eravamo eccitati, esaltati. A causa del film in sé, ma anche perché rappresentava una prova. Sì, potevano esserci nuovi modi di riprendere, di legare le inquadrature le une alle altre, di dialogare. Gli attori avevano a disposizione nuove intonazioni, e il ritmo della colonna sonora poteva governare l’immagine, anziché seguirla. L’avventura non era finita. Ne avevamo dubitato. Bruscamente, ne eravamo sicuri.

Alain Resnais, in “Cinéma”, n. 88, luglio-agosto 1964, trad. it. in Maurizio Regosa (a cura di), Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di Bianco e Nero, Roma, 2002



Marzo 1960. À bout de souffle. Avevo quindici anni. Godard ventinove. Faceva dire a Belmondo (rivelazione di quell’anno): “Siamo tutti morti in libera uscita”. Non sapevo ancora che fosse una citazione di Lenin, né che Mozart potesse tradurre al meglio i sentimenti di un anarchico. Ad ogni modo, 87 minuti dopo ero letteralmente ridotto all’ultimo respiro, e per sempre adulto. Godard, allora critico ai “Cahiers du cinéma”, autore di alcuni cortometraggi, si ‘impadronisce’ di una breve sceneggiatura di Truffaut che “non gli piaceva” e gira in quattro settimane, in interni ed esterni autentici, a Parigi e a Marsiglia, questo capolavoro ‘nouvelle vague’. Sartre, Cocteau, Jeanson gridano al miracolo, ma non sono i soli. Il grande pubblico decreta il successo di questa storia illuminata da Jean Seberg. Michel, un anarchico ladro di automobili, uccide il poliziotto che lo insegue in moto. Tornato a Parigi ritrova Patricia, la sua amica americana, e riesce a ridiventarne l’amante. La convince a partire con lui per l’Italia. Ma la polizia ha scoperto la sua identità e lo sta braccando. Patricia lo denuncerà e Michel verrà ucciso. Godard dirà: “È un documentario su Belmondo e Seberg”. Detto con ironia, è proprio questo: la discrepanza tra due lingue, psicologica per Patricia, poetica per Michel; le stesse parole per un significato diverso. Quando ha la meglio sulla poesia la realtà si traduce così: in variazioni sulla morte. Insomma, fino all’ultimo respiro. Non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) sarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi.

Jean-Claude Izzo, “Cinéma”, n. 437, 13-19 aprile 1988




À bout de souffle è stato l’unico film francese che abbia avuto l’onore di una critica - più che elogiativa e al di là dell’‘elogio’ - in “Socialisme et Barbarie” (n. 31, dicembre I 960 - febbraio 1961). In questo film avevamo sentito tutti - con l’eccezione di alcuni paleo-marxisti residuali - nello stesso tempo la verità dell’epoca e una bellezza straziante che andava al di là dell’epoca. “Per la prima volta da quando si fanno film in Francia” - scriveva in questa critica Diesbach, “una frazione della popolazione si ritrova in un film”. Godard si mostrava all’altezza dei più grandi per la potenza passionale e corrosiva di una fedeltà a una ‘realtà’ che è lì senza che nessuno se ne accorga e per la presa istantanea dell’umore di una generazione - ‘presa’ che d’altronde è molto di più che la restituzione di qualcosa di già dato, perché è vedendo questo film che le persone potevano scoprire se stesse”.

Cornélius CastoriadisRéponses à l’Effet-Godard, in Carole Desbarats, Jean-Paul Gorce, L’Effet Godard, Editions Milan, Tolosa 1989




L’unica ragione per la quale À bout de souffle è menzionato ancora oggi, è perché segna, come una pietra miliare, l’ingresso del cinema nell’età della perdita della propria innocenza e della propria magia naturale. Ingresso di cui un unico film non potrebbe venire ritenuto responsabile. Dopo À bout de souffle il cinema, come se fosse stato ferito, sarà più triste, meno creativo, più cosciente di se stesso – self conscious, come dicono gli anglosassoni con una discreta sfumatura peggiorativa.

Jeacques Lourcelles, Dictionnaire du Cinéma. Les Films. Laffont, Parigi 1992



Godard non sceglie né la trasparenza di Truffaut o di Kast né lo splendore plastico di Resnais. Disorienta con una fotografia da reportage, un dialogo che mescola giochi di parole e citazioni letterarie, una colonna sonora in cui i rumori fanno concorrenza alla partitura di Martial Solal. Queste libertà prese con il racconto come con i personaggi, fanno entrare ampie boccate dell’aria del tempo che dinamizzano il pretesto della sceneggiatura. Godard si afferma come demiurgo, o piuttosto distruttore delle convenzioni, per ricomporre il precipitato cinematografico di un piccolo angolo del suo paese e di un momento della sua epoca. Il campo visivo non è largo, ma lo sguardo è estremamente vivo.

René Prédal50 ans de cinéma français, Nathan, Parigi 1996



Nel momento stesso in cui Martial Solal suona la melodia sinuosa che fa da colonna sonora, un’altra musica le tiene testa, come se si trattasse di una questione di vita o di morte. E fatta di slanci troncati, di briciole di dialoghi dissonanti, di sentimenti letti ad alta voce. Qui, in effetti, si legge nelle anime come se si leggesse in un libro. L’ipotesi di partenza, in fondo, è che un personaggio si sfoglia. Sarà compito dei situazionisti, alcuni anni dopo, di teorizzare attraverso i loro fumetti détournés l’arte del discorso rinviato come una palla di ping-pong al padrone fine oratore. Da qui il loro odio per il giovane Godard, rivale inatteso in cut-up politico-sentimentale, [...] Godard non ritroverà mai più quella freschezza passeggera, un’arte allusiva del ritratto, una maniera leggera di appesantirsi su ciò che rappresenta l’anima per un attore, cioè una t-shirt e un cappello.

Louis Scorecki, “Libération”, 7 maggio 1998, ora in Les Violons ont toujours raison, PUF, Parigi 2000




Girato a budget ridotto senza esserne danneggiato, l’esordio crudo e avvincente di Jean-Luc Godard ebbe un impatto rivoluzionario alla sua uscita nel 1960. Fissava quasi tutto il repertorio su cui si sarebbero fondati i successivi film del regista: un personaggio spaccone reso simpatico dalle smorfie da bullo e dall’autoironia (e portato alla perfezione dalla splendida performance di Jean-Paul Belmondo); l’attrazione per la bellezza e il tradimento femminili (l’indelebile Jean Seberg è l’archetipo dell’americana all’estero); l’imitazione del gangster movie americano, e un rapporto d’amore e odio con l’America in generale; i jump cuts usati in modo radicale, come una puntina che salti allegramente su un disco; e un debole per le citazioni letterarie, pittoriche e musicali, così come per gli aforismi originali. Più insoliti per il Godard successivo sono l’ottima colonna sonora jazz (del pianista francese Martial Solal), il racconto relativamente coerente e i dialoghi postsincronizzati.

Jonathan Rosenbaum, “Chicago Reader”, 23 ottobre 2003