Flow, del regista lettone Gints Zilbalodis, che dopo l’altrettanto sorprendente Away è al suo secondo lungometraggio d’animazione, è una straordinaria esperienza sensoriale, un viaggio tra paesaggi visionari dagli echi misticheggianti in un mondo post-umano. Dell’uomo non c’è traccia, se non qualche edificio e diverse misteriose reliquie ormai ibridate al paesaggio naturale. Prende vita una natura che sembra volerci dimostrare come un significato sia possibile anche senza la nostra ingombrante presenza.

Il protagonista di questa storia è uno schivo gatto nero che fa la sua apparizione sullo schermo mentre osserva incuriosito il suo riflesso in uno specchio d’acqua. Dopo una fuga disperata da un branco di cani, improvvisamente, tutto inizia ad allagarsi e il suo mondo viene progressivamente risucchiato da un oceano sempre più vasto il cui livello non smette mai di salire.

Tutto sembra perduto quando all’ultimo momento appare un battello all’orizzonte. Una pittoresca vela arancione svetta su una sgangherata barchetta: è la salvezza. Qui inizia il viaggio del protagonista verso una meta indefinita, insieme ad uno strano gruppo di animali in cui figurano un capibara narcolettico, un lemure accumulatore, un esuberante golden retriever e un grande volatile simile a una cicogna.

La computer grafica 3D che plasma e dà forma alle immagini di Flow è tutt’altro che nitida, facendo bella mostra dei suoi pixel, ma la sua bellezza sta proprio in questa imperfezione che favorisce realismo e autenticità. I movimenti fluidi e ipnotici del gatto sono seguiti da sinuosi movimenti di macchina che rendono frizzante l’azione e permettono alla nostra vista di esplorare i lussureggianti paesaggi creati da Zilbalodis. Alla foresta della prima parte si faranno largo rigogliosi ambienti marini, misteriose città abbandonate, e, ancora, strane strutture figlie di un tempo dimenticato. Il tutto accompagnato dalle solenni ed enfatiche musiche realizzate dallo stesso Zilbalodis insieme a Rihards Zalupe.

Gli animali che si muovono su questi sfondi soverchianti non sono mai antropomorfizzati, come ci ha abituato l’animazione classica. Il regista si sforza di sfruttare soltanto il linguaggio animale per comunicare con lo spettatore. In un momento storico in cui si sta timidamente iniziando a considerare gli animali come individui dotati di un linguaggio proprio, minando finalmente l’unicità di quello umano, l’esperimento di Zilbalodis è molto importante. Biologia e etologia ormai da tempo hanno riconosciuto la complessità del linguaggio animale, ma accettarlo a livello culturale è ben più complicato, perché si demolirebbero alcuni punti fermi di un pensiero ancora fortemente antropocentrico.

Flow ha anche una forza squisitamente cinematografica che sta in particolare nel sapiente uso dei riflessi. Gli animali in Flow si specchiano di continuo, vanno alla ricerca di ciò che sia simile a loro, infatti il nostro gatto ha come rifugio una casa probabilmente appartenuta a uno scultore, ora abbandonata e circondata da mute statue di gatti, sulle quali se ne staglia una dalle proporzioni gigantesche. L’alluvione costringe il protagonista ad allontanarsi da questo spazio che sembra costruito a sua immagine e somiglianza.

Allo stesso modo, per esempio, il lemure cerca una comunità di altri lemuri e così anche il cane idealmente vorrebbe stare in un branco composto da suoi simili. Alla fine, però, l’unico modo per salvarsi è rompere questo isolamento solipsistico, questo pensiero che pensa se stesso, e volgere lo sguardo verso l’altro, scovando se stessi nella diversità.

“Togheter we stand, divided we fall” cantavano i Pink Floyd in Hey You, allo stesso modo Zilbalodis in Flow, attraverso l’escamotage di un viaggio di crescita, ma anche un percorso dagli echi spirituali e dalle sfumature misticheggiante, racconta di un’unione interspecie, di una solidarietà che non può e non deve avere confini, pena la caduta, la discesa inesorabile verso l’abisso.