In attesa del cineconcerto di Bill Frisell, che accompagnerà dal vivo un film di Bill Morrison, facciamo il punto sul cinema dell'autore americano a partire dalla sezione che Il Cinema Ritrovato gli ha dedicato. Bill Morrison porta avanti un interessante lavoro di recupero delle pellicole senza intervenire sulle lacune provocate dal loro deterioramento. Morrison sembra rinnegare ogni intervento di restauro, ponendosi il non facile obiettivo di valorizzare il nuovo aspetto di questo materiale osservandolo da una diversa prospettiva, passando in rassegna come un Baltrušaitis del cinema, in particolare in Decasia (2002), queste anamorfosi su pellicola, deformazioni in movimento che il nostro occhio è portato a ricostruire intuendone la forma originaria.
Il degrado delle immagini, spiega il regista, “produce una sorta di fessura, un interstizio che fa intravedere lo spazio che passa tra il corpo e la mente/spirito del cinema; il cinema è proprio il bellissimo modello imperfetto di come funziona la nostra mente. (…) Quando l’elemento organico, fisico, della celluloide, che ha la caratteristica di decomporsi proprio come il corpo umano, si insinua tra i sogni, ovvero le immagini impressionate sull’emulsione, ecco, è lì che si rivela il punto di passaggio, il cross-over tra il sogno e la realtà, tra la materia e lo spirito”. (A. Marazzi, Conversazione con Bill Morrison, Il Cinema Ritrovato, 2017)
Questa riflessione sull’inesorabile disfacimento delle immagini provocato dalle ferite degli agenti atmosferici che hanno messo a dura prova la conservazione delle pellicole, viene sublimata da Morrison che ne accetta i frammenti mutilati facendo propria una visione yourcenariana del Tempo, grande scultore, esecutore di opere d’arte inaspettate che sfoggiano alterazioni irreversibili.
Si potrebbe continuare parlando dell’aspetto archeologico del lavoro di Morrison, il quale durante gli “scavi” negli archivi, scorgendo appena una “Kore o un Kuros” impressionati sull’emulsione della pellicola, attraverso il fascio di luce del proiettore ne mostra le metamorfosi materiche. Un singolare parallelo che evoca un altrettanto significativo confronto tra il lavoro psicoanalitico e il rinvenimento di un reperto archeologico che Freud utilizza per descrivere la nuova pratica terapeutica, attraverso la quale, come avviene per gli oggetti antichi, i ricordi rimossi vengono riportati alla luce.
Le pellicole utilizzate da Morrison hanno subito lo stesso destino di Pompei, sepolte e riportate alla luce ad opera di una vanga, come effettivamente accade per Dawson City. Non è solo l’inconscio cinematografico (i film sepolti in una piscina nello Yukon in Canada) a riaffiorare, sono le tracce di una memoria storica selettiva che cancella i volti anneriti dei minatori della contea di Durham in The Miners’ Hymns, vite dimenticate nonostante l’importante contribuito dato allo sviluppo del proprio paese.
Le famiglie riunite per l’annuale Galà dei Minatori e la processione nella cattedrale di Durham, gli spezzoni rinvenuti negli archivi della Library of Congress e della George Eastman House assemblati seguendo un ritmo ipnotico in Decasia, i film che intrattengono i protagonisti del mito americano della corsa all’oro a Dawson City, sono sopravvissuti al trascorrere del tempo, e il cinema, sostiene Morrison, “rimane l’unico corpo che ci mette in connessione con quel tempo passato”.
La loro “immortalità”, come avviene per i resti delle civiltà dei popoli antichi e le immagini metaforiche dell’inconscio freudiano, spinge il regista verso un attento lavoro interpretativo perché questi reperti archeologici e fossili allo stesso tempo, vista la natura organica della celluloide, tornino ad essere accessibili ai posteri.