In un saggio scritto per Rolling Stone nel 1983, Don DeLillo riflette sul ruolo capitale che ha avuto l’assassinio Kennedy nell’immaginario collettivo statunitense. La sparatoria, argomenta nel saggio lo scrittore americano, ha incrinato il sogno di una nazione finora estranea alla violenza politica di cui era intrisa, catapultandola in una confusa disillusione. L’assassinio Kennedy è per lui “il primo di una catena di casi di violenza superiore”, un episodio traumatico che ha cambiato il rapporto degli spettatori con standard di notiziabilità, complottismo e mediatizzazione della catastrofe. L’evento ha avuto un impatto tale da spingere l’autore a dedicargli una ricostruzione romanzata, Libra.

Il libro ricostruisce fittiziamente le trame che avrebbero portato Lee Harvey Oswald a sparare materialmente a Kennedy, coadiuvato dalla Cia e dalla fazione anticomunista cubana. La costruzione dell’intreccio gioca sull’ambivalenza del significato di plot: in inglese, plot è appunto la trama di una storia di finzione, ma è anche una cospirazione ai danni di qualcuno.

Ad ogni modo, secondo DeLillo, da Kennedy in poi l’immaginario nazionale avrebbe iniziato a costruirsi sulla spettacolarizzazione della violenza, svuotata del suo portato simbolico e trasformata in oggetto di consumo. Nello stesso saggio – intitolato American Blood: A Journey through the Labyrinth of Dallas and JFK – lo scrittore menziona un’altra sparatoria ai danni di un presidente americano, Ronald Reagan.

In quel caso, l’attentato fu immortalato da un fotografo esperto: “Mentre l’attentatore premeva il grilletto, il fotografo rispondeva premendo il pulsante di scatto”, scrive DeLillo. In inglese, il verbo usato dall’autore è lo stesso: to shoot, “sparare”, ma anche “scattare una foto”. E infatti prosegue lo scrittore: “Entrambe le azioni sembrano risposte equivalenti a un ambiente iper-stimolante. Le strisce di pellicola mostrano corpi distesi, uomini accovacciati e sanguinanti. Dobbiamo forse congratularci con loro per aver preso parte alla soddisfazione fotografica?”

Civil War, il film diretto per A24 dal regista britannico Alex Garland, mette lo spettatore di fronte alla stessa domanda. In tempi futuri, ma non lontani, l’America è nel pieno di una guerra civile. I centri abitati sono semideserti, internet non funziona, l’elettricità va e viene; bombardata, la città di New York non ha più acqua per tutti. Il presidente degli Stati Uniti è al suo terzo mandato e si rifiuta da tempo di parlare con i giornalisti, ma assicura a reti unificate che la guerra con la fazione secessionista sta per finire con una vittoria trionfale.

La stampa è però certa che il presidente stia mentendo, e che il suo mandato abbia i minuti contati. Per questo, tre reporter di guerra decidono di partire per Washington D.C. nella speranza di intervistare il capo di Stato prima che venga deposto dai ribelli. Il gruppo è composto dalla fotogiornalista Lee Smith (Kirsten Dunst) e dai reporter Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson). A loro si unisce anche Jessie (Cailee Spaeny), giovane aspirante fotografa che ammira molto il lavoro di Lee.

L’iniziativa, viene detto subito, ha i contorni di una missione suicida: i secessionisti sparano a vista, perché vedono nella stampa una combattente nemica. Joel e Lee sono però convinti che il rischio sia necessario, e che un’intervista esclusiva con il presidente sia l’unica storia rimasta che valga la pena inseguire. Non c’è momento, in Civil War, in cui l’importanza di questo scoop sia davvero messa in discussione. E, del resto, il ruolo del giornalista non è farsi domande, spiega Lee a Jessie: “Noi registriamo la realtà, in modo che altre persone si facciano le domande. Vuoi essere una giornalista? Questa è la professione”.

Jessie accetta immediatamente questa prospettiva e nessuno dei presenti obietta ma, nell’aria, resta sospesa la domanda: in una nazione spaccata a metà, con una presidenza incostituzionale e un tessuto sociale a brandelli, chi sono le altre persone che dovrebbero farsi domande, se non i giornalisti? Non è chiaro a beneficio di chi sarà fatta l’intervista al presidente, non sappiamo chi mai vedrà le foto di Lee e Jessie (che, peraltro, scatta su pellicola). Esistono ancora lettori dell’informazione, nell’America di Garland? Se esistono, che peso daranno all’ennesima immagine che cattura acriticamente una violenza ormai quotidiana? Porsi questi interrogativi sarebbe deleterio per i protagonisti. Evitare di farlo è questione di sopravvivenza: a prescindere da tutto, una fotoreporter deve andare avanti a scattare le sue fotografie. Puntare e scattare, e basta.

È sintomatico che, circa a metà del viaggio, il gruppo incappi in uno stallo alla messicana tra due ragazzi in tuta mimetica e un cecchino nascosto in una casa abbandonata. Entrambi hanno fucili di precisione e stanno cercando di eliminare la parte nemica. “Chi vi dà gli ordini?”, chiede Joel ai due ragazzi. “Nessuno”, è la risposta. Non importa a che fazione appartengano loro, o a che fazione appartenga la figura nella casa: “Qualcuno sta cercando di ucciderci, quindi noi cerchiamo di uccidere lui”, spiegano. È semplice, è questione di sopravvivenza: a prescindere, le due parti si sparano a vicenda. Puntano e premono il grilletto, e basta.

Garland costruisce il parallelo tra sparare e scattare una foto in crescendo, mostrando la lenta discesa della giovane apprendista nella stessa mentalità della sua mentore. Lo sguardo di Jessie poco prima di scattare una foto diventa così sempre meno esitante eppure sempre più assente, preso dalla ricerca di un’immagine iconica che catturi il momento tra la detonazione di un colpo e la morte del bersaglio. Ciò che si trova dall’altro lato dell’obiettivo finisce allora per essere irrilevante, il simulacro di una guerra senza senso, mentre la fotografia che lo ritrae diventa un oggetto estetico più che un vero contenuto informativo.

Lo scatto e lo sparo, in Civil War, sono risposte equivalenti a una stessa situazione. Le strisce di pellicola di Jessie mostrano corpi distesi, uomini accovacciati e sanguinanti in inquadrature esteticamente bellissime, ma che non significano quasi più niente. Cosa dovremmo fare di quei corpi? E, come già a Don DeLillo, viene da chiedersi: dovremmo forse congratularci con loro per aver preso parte alla soddisfazione fotografica? Civil War si limita a scattare una foto al futuro, ma non dà altre risposte.