Se in viaggio a Vienna vi trovaste ad entrare nella bella palazzina dalla faccia bianca al n. 19 della Berggasse per visitare la casa di Sigmund Freud, pur se emozionati dalla possibilità di suonare lo stesso campanello e salire gli stessi gradini che tanti psicanalisti e pazienti illustri hanno calpestato, c’è il rischio che rimaniate un po’ delusi dal non trovare quasi niente dell’arredamento che riempiva le stanze private e lo studio del padre della psicanalisi.

Stessa sorpresa, ma di segno opposto, potrebbe cogliervi se, entrando in una delle graziose villette dell’elegante quartiere di Hampstead, a nord di Londra, vi imbatteste in quello stesso studio che dovrebbe essere a Vienna, trasportato come per magia dall’altra parte della manica, con tutte le sue centinaia di statuette antiche che affollano ogni angolo, facendolo somigliare a museo: solo il celebre lettino, coperto di tappeti, qualifica il luogo per la sua reale funzione. È in questa casa, adattata dal figlio Ernst – architetto e padre del pittore Lucian –, che Freud visse, accudito dalla devota figlia Anna, l’ultimo, doloroso anno della sua vita, costretto a lasciare l’Austria dopo la presa del potere di Hitler.

Ed è qui che ha luogo la conversazione che è al centro di Freud – L’ultima analisi (traduzione del più corretto inglese Last Session, l’ultima seduta). Tutto si svolge in ventiquattro ore, una giornata particolare, non solo per i protagonisti. È il 3 settembre del 1939, e il mondo è sull’orlo dell’abisso. Due giorni prima Hitler ha invaso la Polonia, e dalla radio si attendono notizie sull’entrata in guerra del Regno Unito, ormai inevitabile.

Freud è in un momento di grande fragilità, la fase terminale di un cancro alla mandibola che lo perseguita da sedici anni. A far visita al “dottore del sesso” come lo definisce una farmacista tremebonda, è C. S. Lewis, apologeta cristiano e professore a Oxford, membro con altri colleghi (tra cui l’amico Tolkien) del gruppo Inklings, e futuro acclamato autore delle Cronache di Narnia. Il dottore e il professore sono su posizioni avverse: l’uno è ateo e considera la religione un insieme di favolette consolatorie per menti fragili; l‘altro è profondamente critico verso la psicanalisi, convinto che l’unica conoscenza di sé passi attraverso Dio.

A far la parte del leone, per quanto ferito, è Freud, ma, nonostante gli attacchi, Lewis difende con forza le sue idee. Si scontrano, si scrutano, si analizzano, forse arrivano a capirsi, restando fermi nelle proprie opinioni ma accettando, anche senza ammetterlo palesemente, il ragionevole dubbio.

Basato sull’opera teatrale di Mark St. Germain, adattata dall’autore e con il regista, il film di Matt Brown cerca di dare ritmo e respiro a questo serrato dialogo (in realtà mai avvenuto) concedendosi aperture, è proprio il caso di dire, psicanalitiche. A venir fuori sono i traumi dei due uomini: l’infanzia difficile di Lewis, che la perdita della madre a nove anni aveva allontanato dalla fede, poi ritrovata (e difesa con la forza con cui gli ex-alcolisti condannano l’alcool, parola di Freud), le paure del bizzoso dottore viennese, figlio di un ebreo intransigente, costretto a confrontarsi con una morte che avverte ormai imminente.

Affiorano anche, tra le nebbie di un conflitto terribile che sta per cominciare, le tracce indelebili della Grande guerra, che ancora non hanno abbandonato gli incubi di Lewis, soldato sulla Somme, e l’orrore dell’influenza Spagnola, di cui fu vittima l’amatissima figlia di Freud, Sophie. Sono più queste digressioni a suscitare l’interesse che il dibattito in sé, un po’ accademico e al fine non particolarmente originale nella sua manichea divisione tra fede e ragione, o più precisamente tra fede in Dio e fede nella scienza. Uno schematismo che colpisce il film anche quando abbraccia la tendenza di un certo cinema psicanalitico alle diagnosi facili, tagliate con l’accetta del ricordo catartico, del sogno rivelatore.

Rimane impresso invece il ritratto della figlia di Freud, Anna, interpreta dalla brava Liv Lisa Fries di Babylon Berlin, figura che meriterebbe un film a parte. Allieva prediletta, i cui studi contribuiranno in maniera decisiva all’evoluzione della psicanalisi infantile, Anna Freud visse e collaborò per quarant’anni con la psicanalista americana Dorothy Burlingham. Un rapporto che Freud fatica ad accettare, visto anche il legame di forte dipendenza, non privo di ambiguità, che unisce padre e figlia. Per tutta la vita Anna continuò a lavorare nella casa-studio di Londra, mantenendo intatto il santa sanctorum paterno (ricostruito con precisione dall’impeccabile Luciana Arrighi).

Sono questi elementi a salvare Freud – L’ultima analisi dalle insidie del didascalismo, aiutati dal misurato Matthew Goode e da un Anthony Hopkins sempre mirabile: alle prese con un personaggio non facile da inquadrare (ci hanno provato in molti, da Montgomery Clift a Viggo Mortensen, passando per il Remo Remotti edipico di Sogni d’oro), restituisce a Freud sia la fragilità della malattia che la forza di un intelletto ancora lucido, di uno spirito combattivo e dispoticamente intransigente.

L’uomo che aveva inventato e diffuso “la peste” della psicanalisi morirà tre settimane dopo la conversazione immaginata nel film, aiutato dalla morfina somministrata dal suo medico, lasciando l’Europa alle prese con una guerra terribile, convinto che Hitler non sarebbe stato l’ultimo mostro della storia umana. Per Freud l’aggressività insita dell’uomo rende impossibile un mondo senza guerre.

Visti i tempi in cui viviamo, ci viene il dubbio che, purtroppo, con buona pace delle speranze di Lewis e della sua fiducia nel messaggio cristiano, potesse avere ragione. Ma, pare, l’unico segno certo di sanità mentale è la capacità di cambiare opinione.