A rivederlo oggi, a trentacinque anni dall’uscita e a sessanta dalla guerra in Vietnam, Full Metal Jacket impone, fra le mille ispirazioni che un classico per sua natura alimenta, il tentativo di rivisitarlo non solo sullo sfondo della storia del cinema, ma anche su quello delle umane vicende, o manzoniana Provvidenza. Ci proviamo.

Quando fu girato, nel 1987, gli Stati Uniti si profilavano quali vincitori della guerra fredda di cui il conflitto nel Vietnam comunista, benché perso, fu uno dei capitoli più traumatici, lunghi e controversi. Kubrick installa l’impianto della seconda parte del film proprio sulla rappresentazione del paese nel sud dell’Indocina come labirinto, adiacente a quello di neuroni cerebrali di Shining e sua prosecuzione, in cui gli USA persero direzione e coordinate, convinto come era che quell’impegno militare fosse stato “totalmente privo di senso”.

Non sappiamo se le guerre in corso oggi lo siano altrettanto per chi le ha iniziate, ma sappiamo che celano entrambe la fine dell’egemonia politica globale degli Stati Uniti, che stanno seppellendo questa volta non i propri Marines e i nemici Vietcong, ma il loro ruolo di gendarme del mondo. Per questo si torna volentieri a Parris Island e all’addestramento di otto settimane che il sergente Hartman serve a Joker, Palla di lardo, Biancaneve, Cowboy e gli altri per prepararli alla guerra che li impegnerà poco dopo a 20.000 miglia di distanza.

Quei primi quarantacinque minuti sono, di fatto, un film-esperienza, il cui intento radice combacia con quello del Jonathan Glazer di La zona d'interesse, con un’idea di cinema che sembra però diversa.

Se lo stile è glaciale e distaccato in Full Metal Jacket come nel film premio Oscar 2024, è però, a differenza che in quest’ultimo, del tutto manifesto. I carrelli, i rallenty, i primi piani a vocazione descrittiva che rendono i personaggi astratti, l’uso inquietante e spiazzante dello spazio della caserma e lo sporadico, sarcastico commento in voce over di Joker sono artifici di evidenza del linguaggio che Kubrick prende, domina ed espone per metterli al servizio di due processi sovrapposti. Quello che prepara le reclute alla guerra, qualsiasi guerra, e quello esperito da chi guarda, portato con loro, e come loro, a dubitare della propria visione di mondo per fare spazio ad una differente, completamente altra.

Se paragoniamo, come ci sembra sensato fare, il recinto che separa gli Höss dal campo di Auschwitz ne La zona d'interesse alla caserma di Kubrick, notiamo come lo spazio e i personaggi che lo abitano siano esplorati in modo completamente diverso. Nel primo, le macchine da presa nascoste e dislocate in casa e giardino nell’architettura alla Grande fratello pensata da Glazer, nel secondo quanto detto sopra. Finalità di entrambi: disumanizzarci precipitandoci nella disumanizzazione altrui.

È grazie allo stile che Kubrick consegue l’impresa che ci sembra non riuscita a Glazer: malessere e tossicità dell’animo umano sono trasmessi in Full Metal Jacket perché racchiusi ideologicamente nelle scelte del regista e sprigionati emotivamente da queste, laddove la distanza di Glazer stenta a far entrare sotto pelle quel feroce senso di superiorità che è alla base dell’indifferenza dei coniugi Höss all’inferno a due passi dai loro letti, e rende chi ne è infetto capace di qualsiasi cosa.