Il più lusinghiero riconoscimento conferito a Nattlek (Giochi di notte), opera seconda di Mai Zetterling, fu probabilmente l’invettiva di Shirley Temple in occasione della sua proiezione al San Francisco International Film Festival, in cui definì il film “pornografico” e indegno di essere mostrato ad un festival. Altrettanto soddisfacente per l’autrice deve essere stato quando, in occasione del Festival di Venezia, il suo film venne mostrato privatamente ai giurati poiché considerato troppo crudo per l’esposizione al pubblico. Quando si scrive e dirige un’opera così dissacrante ed esplicita, reazioni tanto scomposte e allarmistiche valgono ben più di ogni elogio da parte della critica specializzata.

La storia di Jan, un uomo che ritorna con la compagna nella villa in cui ha trascorso l’infanzia, è presentata in maniera surreale, alternando continuamente il presente e il passato del protagonista. Sono gli anni della pubertà quelli che interessano maggiormente all’autrice, che tratteggia un profilo psicologico preciso e impietoso, degno d’un manuale di psicanalisi freudiana. La sua formazione sessuale è condizionata dalla costante alternanza di venerazione e frustrazione verso le figure femminili che occupano la casa, in particolare l’esuberante quanto cinica madre, e la sua immaginazione si forma a partire da queste entità quasi fantasmatiche che infestano i suoi ricordi, imprigionandolo nella persistenza di un passato opprimente. La casa diventa una dominatrice ostile ed esigente, un ambiente fin troppo vivo in cui convergono ogni tipo di personaggi molesti.

La regista non risparmia al pubblico una buona dose di sadismo quando mette in scena le frequenti feste che si tenevano nell’opulenta abitazione, con inquadrature talmente affollate da sembrare sull’orlo di esplodere e lasciare strabordare chi le occupa, oppure esasperando la chiassosa cacofonia dell’ambiente acustico. Il gioco a cui l’opera deve il titolo si riferisce all’immaturità di Jan che, come la madre prima di lui, cerca nel sarcasmo strafottente e in un ostentato cinismo un palliativo dall’infelicità che lo divora, con scarsi risultati. Sono vistosi i parallelismi con le opere di Bergman, con cui d’altronde la regista e parte del cast avevano contatti, ma anche la vicinanza ideologica agli harem immaginari che popolano il cinema di Fellini, benché i personaggi del cineasta riminese detengano spesso un maggiore controllo sulle presenze femminili che li ossessionano.

In pochi sono riusciti a non banalizzare il tema della formazione sessuale maschile, e ancor meno l’hanno fatto con tanta severità e freddezza. Un’opera convincente e coraggiosa, estrosa e disturbante, che purtroppo (o per nostra fortuna) viene esposta in un festival. Visti i precedenti, si può quasi considerare uno smacco.