Nella sua analisi di Invaders From Mars (1953) Andrea Meneghelli nota giustamente come si tratti di un film ad altezza di bambino, nel cui giovane protagonista poteva riconoscersi il pubblico preadolescente che negli anni Cinquanta rappresentava il grosso degli spettatori americani di fantascienza. Non è difficile immaginare tanti piccoli movie nerds, alcuni dei quali diventati a loro volta registi, provare un brivido lungo la schiena davanti alla stupenda carrellata che precipita lo spettatore nella cameretta di David, scienziato in erba figlio di un ingegnere militare. Completano un incipit folgorante le luci rosse e verdi, già pienamente spielberghiane, che annunciano l’atterraggio di un disco volante sulle dune poco distanti dalla villetta suburbana dei Gardner. Il movimento orizzontale in avanti anticipa Guerre stellari (1977), mentre come in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) l’arrivo dei visitatori spaziali è sottolineato da un’ipnotico motivo melodico.
Sono soprattutto intuizioni audiovisive come queste ad aver consegnato Invaders alla memoria collettiva, che tra l’altro l’ha omaggiato di un remake (1986, r. Tobe Hooper) e di uno stuolo di citazioni più o meno esibite. Ultimo lavoro da regista del leggendario scenografo William Cameron Menzies (Il ladro di Bagdad, Via col vento), assemblato in fretta e furia per battere La guerra dei mondi di Byron Haskin nella corsa a mostrare per primi gli alieni a colori, ancora oggi stupisce per la vividezza della sua grana cromatica e per la fantasia del production design.
L’incubo ad occhi aperti di David, accortosi che i Marziani stanno facendo il lavaggio del cervello ai suoi onesti concittadini, si traduce in una serie di brillanti trovate scenografiche che gonfiano a dismisura le proporzioni degli ambienti, schiacciando ancor di più il piccolo protagonista nel suo disperato tentativo di allertare le autorità. Quasi una prova generale delle distorsioni di scala messe in scena dal capolavoro del ciclo, Radiazioni BX: distruzione uomo (1957) di Jack Arnold.
Decisamente meno avanzato, ma in ogni caso influente, il contenuto metaforico del film, che sempre con Arnold (Destinazione… Terra!) condivide il primato dell’invenzione al cinema del clichè dell’“ultracorpo” che si sostituisce agli abitanti della ridente cittadina. Mentre però lo specialista della Universal sovvertiva come suo solito i sottotesti xenofobi e anticomunisti tipici di tanta fantascienza anni Cinquanta, Invaders ne è al contrario fra gli esempi più cristallini, completo di un monologo su possibili reazioni esterne alle politiche nucleari americane, di un’apologia militarista che avrebbe fatto inorridire il Wise di Ultimatum alla Terra, e di uno sgradevole tocco razzista nella scelta dell’unica attrice non bianca del cast (Luz Potter), fantasiosamente dipinta di verde e oro per interpretare la mente-alveare a capo degli invasori.
Come per l’altrettanto reazionario L’invasione degli Ultracorpi (1956) tuttavia, la messa su schermo di queste paure dovute alla guerra fredda, alla minaccia atomica, all’esasperato riflusso familista e suburbano del secondo dopoguerra, può essere letta paradossalmente come involontario atto di denuncia di quello stesso contesto culturale isterico. Fumettone del tutto privo della geniale costruzione orrorifica del film di Siegel, Invaders risulta comunque interessante in questo senso per il contrasto straniante – da melodramma alla Sirk o Ray – fra la crisi sociale ritratta e la sua confezione sgargiante, lussuosa per quanto lo permette il budget.
Dialettica culminante nel primo piano di una bambina, occhi blu e lentiggini come un’illustrazione di Norman Rockwell, che increspa le labbra in un ghigno inumano dopo aver dato fuoco al seminterrato di casa sua. Il tempio domestico corrotto dall’interno.