A otto anni dal modesto The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca, Lee Daniels torna a raccontare il passato nazionale dalla prospettiva afroamericana attraverso una delle sue principali e più controverse icone culturali in Gli Stati Uniti contro Billie Holiday. Un biopic incisivo che pur perdendo di mordente nella seconda parte – troppo incentrata sulle vicende sentimentali della protagonista – evita la narrazione sensazionalistica del precedente La signora del blues di Sidney J. Furie incentrato sugli aspetti più torbidi e scandalistici di Lady Day.
Daniels ripercorre sì vita e carriera dell’artista ma con un intento diverso: raccontare non quanto già noto (l’infanzia traumatica, la dipendenza da alcol e droghe, l’autolesionismo sentimentale) bensì inserire questi aspetti nel contesto più complesso e articolato del suo tempo. Il centro del film non è dunque la biografia di Billie Holiday, ma piuttosto l’impatto che la sua esistenza ha avuto sulla propria immagine pubblica e come le sue debolezze siano state più volte sfruttate per attaccarla e delegittimarla. Prendendo in considerazione gli ultimi dieci anni della cantante, il film evidenzia l’implacabile persecuzione attuata dal Federal Bureau of Narcotics, subdolo metodo governativo per mettere a tacere una voce scomoda come quella dell’artista che con Strange Fruit portò all’attenzione mediatica la scomoda realtà dei linciaggi degli afroamericani.
In una metafora priva di sconti, la descrizione di un corpo carbonizzato e mutilato che pende da un albero come un frutto sciocca l’opinione pubblica, facendo della Holiday una figura di riferimento del movimento per i diritti civili e al contempo una nemica dello Stato, un’antiamericana come la definiva Hoover che “provoca le persone nel modo sbagliato” e per questo da perseguire rovinandone la carriera. False prove, minacce, tradimenti, cavilli burocratici, tutto è legittimato per far leva sulla sua tossicodipendenza, onta inaccettabile per l’America puritana che come col proibizionismo o la successiva caccia alle streghe invadeva pericolosamente la sfera personale del cittadino spiandone abitudini, vizi, tendenze e punendo quelle ritenute sconvenienti o contrarie a un imposto sistema morale.
Come in Judas and the Black Messiah, Martin Luther King VS FBI o Chi ha ucciso Malcolm X?, anche per Daniels l’attenzione è rivolta alla denuncia degli illeciti compiuti dai servizi segreti nazionali al fine di contrastare l’inevitabile e inarrestabile progresso della causa nera, vissuto come minaccia per l’ordine e la gerarchia razziale sostenuti da una parte del Paese. Un pericolo che se non poteva essere scongiurato doveva almeno essere limitato e ostacolato in ogni modo, ad ogni costo.
Il film riabilita così la figura di Lady Day evidenziandone non tanto l’immagine comune di afroamericana fragile e tossicodipendente, quanto invece quella forte e combattiva, responsabile delle proprie scelte e disposta a pagare per le proprie idee conducendo fieramente le proprie battaglie di donna e di nera in un contesto da cui per questo era doppiamente esclusa. Un’operazione coraggiosa quella di Daniels, sostenuta dalla magistrale interpretazione di Andra Day, cantante soul qui al suo debutto come attrice premiato con un Golden Globe e una candidatura all’Oscar.
L’immedesimazione nella protagonista è tale non solo da riuscire ad incarnarla nell’aspetto fisico, ma arrivando addirittura a catturarne e trasmetterne il carisma e il portamento oltre che replicarne il timbro vocale, quella voce malinconica e conturbante segno indistinguibile di Holiday. È Day a reinterpretare i classici dell’artista da All of Me a God Bless the Child passando per Ain’t Nobody’s Business, Solitude, I Cry For You, Lady Sings the Blues e ovviamente Strange Fruit, canzone-simbolo che come sostiene l’attrice “impone di spalancare gli occhi e perciò si batte per un’uguaglianza che, allora come adesso, è fumo negli occhi per i sostenitori della supremazia bianca”.