C’è una scena in Gloria di Sebastian Lelio in cui la protagonista, quasi sessantenne, si avvicina seduttiva al suo amante dentro una camera d’albergo vestita solo di una camicia sbottonata, in segno di sfida e di fiducia. E c’è una scena in America oggi di Robert Altman (1993) in cui un personaggio femminile, vestito solo di un’elegante blusa bianca, confessa al marito un tradimento del passato, con fare colpevole e narciso. Protagoniste dei due coraggiosi full frontal Paulina Garcia in Gloria e Julianne Moore in America oggi.
Sebastian Lelio nel suo Gloria Bell, calco statunitense del precedente cileno Gloria, sceglie di non ripetere quel nudo nel passaggio di testimone fra la sua prima protagonista e la nuova, proprio Julianne Moore, così come di rendere più caste tutte le scene di impietoso erotismo che mostravano il corpo pulsante, ma non più giovane, della Garcia in Gloria, e coprono invece di un velo di pudore e patinatura hollywoodiana quello ben più attraente della Moore in Gloria Bell.
Qualcosa di simile vale per i visi delle due attrici. Se la Garcia, conciata in modo da ricordare spessissimo il Dustin Hoffman di Tootsie, poteva risultare quasi comica nei convinti sguardi da diva misteriosa e sicura di sé con cui si proponeva a coetanei single nelle balere dedicate, la Moore, che diva lo è davvero, è già in partenza più credibile come oggetto del desiderio maschile, ancorché dietro occhialoni esagerati, qualche ruga e vesti da mamma di due figli adulti e nonna di un bimbo piccolo. Che cosa ottiene Lelio ringiovanendo di una decade la sua Gloria, rendendola più bella e alla moda, scrutandola con maggiore tatto quando si dà fisicamente al suo dubbioso amante, sottoposto anch’egli a medesimo restyling? Guadagna qualcosa oppure lo perde?
La sensazione è paradossale. Spogliata infatti la nuova versione del film dei risvolti sociali dell’originale, derivanti dal contesto cileno, ci si aspetterebbe di trovare una riflessione definitiva sul tema principale della storia, i rapporti fra i sessi in epoca moderna, sulla forza della donna al cospetto dell’inadeguatezza maschile, sulla sua volontà di ripartire dopo ogni caduta contrapposta al pavido ripiegarsi su se stesso dell’uomo. Accade invece che, per quanto il secondo ritratto di signora di Lelio non cambi di una virgola gli eventi ed il significato dell’incontro fra Gloria e Arnold, esso appaia non solo più intriso di malinconia dell’originale, ma incapace di scrollarsela di dosso.
Per quanto si venga del tutto ripagati dell’attesa della liberatoria sequenza finale, la migliore per la Moore come per la Garcia, l’approdo in Gloria Bell è più avviluppato in una sensazione generale di oppressione, ed è per questo meno sereno, meno aperto. Possibile che l’interpretazione della Moore, più fredda e composta di quella della sorridente e goffa Garcia, finisca per suscitare minore empatia, dunque che la vitalità leggera, totale e buffa della prima Gloria venga ridimensionata proprio dalla fisicità fin troppo perfetta di Moore.
È come se il contesto più sofisticato di Los Angeles, gli attori più giovani e affascinanti e le scene di intimità più coinvolgenti contribuissero a rendere questa seconda Gloria meno motivata nella sua capacità di rialzarsi e più obbligata a farlo, meno comunicativa di un desiderio tutto femminile di tornare in pista. Come se la necessità di farcela fosse meno urgente, per lei, di quella della sorella maggiore cilena, dunque un po’ più triste, meno connessa al suo essere donna e in virtù di questo coraggiosa, pronta a rischiare e cadere di nuovo, e più al suo essere semplicemente persona.
Per questo si esce dalla sala un po’ insoddisfatti, ma soprattutto un po’ insoddisfatte: per non aver scorto qualche indizio su quel che può o deve accadere dopo il ballo sfrenato con cui si riparte. Da se stesse, certo, ma magari anche da un altro uomo? Migliore dell’ultimo? Come quello, ché di meglio oggi non è lecito chiedere? Oppure da sole, proprio perché qualcosa di meglio non esiste più? Ci piace pensare allora ad un terzo Gloria da inserire nella serie, diretto magari da chi al cinema ha confezionato le scene di erotismo più rispondenti alla complessità femminile, Jane Campion - Lezioni di piano, ma per ragioni diverse anche In the Cut -, e anche per questo può illuminare di luce nuova le prospettive sulle relazioni fra i sessi in un’epoca di smarrimento totale per aspettative e desideri da coltivare nei rapporti.