Come uno dei primi cameramen inviati nel mondo dai fratelli Lumière, Miguel Gomes realizza una somma di vedute che fondono il passato con il presente, la leggenda con la realtà, e che ampliano l’immaginario cinematografico e tematico del regista portoghese. L’opera vincitrice del premio per la miglior regia a Cannes racchiude in sé molteplici discorsi – colonialismo e post-colonialismo; orientalismo; cinema delle origini; meta-cinema; livelli diegetici – celati dietro una storia d’amore impossibile, quella tra Molly (Crista Alfaiate) e Edward (Gonçalo Waddington).
Edward, funzionario britannico di stanza in Birmania, scappa dalle proprie nozze con Molly. Da Rangoon a Saigon, passando per la Cina e il Giappone. Quella di Edward è una fuga dalle proprie responsabilità e dalla pressione sociale; la fuga di Edward simboleggia anche l’inconsapevolezza del colono occidentale in Asia, che anche attraverso un certo tipo di rappresentazione fotografica e filmica ha schiacciato le svariate sfaccettature delle diverse culture orientali, riducendo un intero continente a immagine da cartolina. L’Asia ripresa da Gomes, con i teatri di burattini e ombre, scooter e karaoke, collide con l’idealizzazione e al contempo la riflette: quanto possiamo capire di questi luoghi? Quanto siamo consapevoli della nostra influenza sul mondo che ci circonda?
Altro grande filone discorsivo che il film apre è quello dei livelli narrativi: due storie, quella di Molly ed Edward che, sebbene parallele, non vengono intrecciate dal montaggio, ma piuttosto il regista si prende tutto il tempo che serve per sviluppare le vicende separatamente. Allo stesso tempo. l’impiego di una narrazione extradiegetica su immagini che ritraggono l’Asia contemporanea, fanno sì che lo spettatore non sospenda mai la propria incredulità nei confronti della storia. In questo film, quindi, Gomes ignora il principio fondamentale del patto tra spettatore e autore: il pubblico è totalmente consapevole della irrealtà dei fatti.
Mentre il rapporto tra Molly ed Edward è un semplice veicolo di messaggi, il vero soggetto verso cui il regista vuole che si provi fascinazione è la macchina da presa. Sono macchina da presa e scelte registiche che costruiscono la complessa impalcatura di realtà, finzione, immaginari e ideologie attraverso cui noi possiamo interpretare una veduta delle strade dell’odierna Taiwan o il viaggio di Edward sulle spalle di alcuni servi e portatori.
A un certo punto, un funzionario europeo di stanza in Cina afferma che noi occidentali non capiremo mai del tutto la cultura orientale… forse è vero, così come è vero che noi pubblico forse non capiremo mai del tutto il cinema. Pur avendo sviluppato i discorsi critici per comprende alla fine c’è sempre un regista, un movimento o un’opera che stravolgono il nostro modo di pensare e si pongono in contrasto con tutto quello che era stato fatto fino a quel momento.
Grand Tour di Gomes, nel suo rielaborare il cinema delle origini, fugge dagli schemi prestabiliti dell’osservazione cinematografica e documentaristica per farci immergere in un fiume fantastico, le cui correnti ci spingono verso mondi lontani e inarrivabili.