Aggiudicatosi il Premio Speciale della Giuria alla 80esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Green Border di Agnieszka Holland è una potente opera di denuncia che, attraverso un radicale cinema di inchiesta, mescola crudo realismo e fiction ad alto tasso drammaturgico.
L’itinerario costruito intorno al “confine verde” pullula di corpi martoriati e anime straziate: un avamposto infernale fatto di paludi e fango, dove i pattugliamenti e le sevizie perpetrate dalle guardie di frontiera sono la brutale normalità quotidiana; questo è il destino che attende l’intera famiglia siriana protagonista del film, in fuga da Harasta per raggiungere la Svezia.
Giunti in un oscuro sottobosco in cui si consuma una guerra ibrida, i profughi scappati dalla Siria, insieme ad altri disperati provenienti dall’Africa o dai regimi talebani, diventano inanimate pedine che Lukashenko e Morawiecki utilizzano in un intricato complotto geopolitico lungo il confine tra Bielorussia e Polonia. Se il primo paese li attira fingendo di concedere loro un facile lasciapassare verso l’Europa, l’altro li classifica come indesiderati da rispedire nelle grinfie di Lukashenko, in una spirale d’orrore in cui è complice anche la legislazione europea.
Con il rigore dello stile documentaristico e il tagliente bianco e nero che spazza via ogni luce dall’inquadratura, Agnieszka Holland compone un quadro di raggelante drammaticità, scosso da tensioni horror – culminanti nelle torture ordite dalle forze di polizia al confine - e da una propensione per un cinema di corpi e dettagli in cui la macchina da presa funge da raccordo emotivo e catalizzatore di empatia, senza indulgere in letture retoriche e polarizzate.
La regista, a distanza di trentatré anni da Europa, Europa, stringe lo spettatore in un assedio prolungato (147 minuti) in cui si mette al bando la deficitaria politica europea sull’immigrazione e in cui si evidenziano le enormi responsabilità dei due paesi ultranazionalistici, rei di aver ideato la diabolica rete geopolitica dei respingimenti illegittimi; allo stesso modo, l’impianto accusatorio del film mette in risalto il diverso modello di accoglienza riservato agli ucraini rispetto ai tanti siriani, afghani e africani verso i quali ogni populismo ha diretto un odio feroce e un insopportabile razzismo etnico.
In tale odissea di fughe drammatiche e difficili ricongiungimenti, la regista polacca utilizza il suo cinema come voce indipendente, depurata dall’intensità patriottica e da qualsiasi inclinazione verso analisi propagandistiche e facili retoriche. Tutto ciò contribuisce a rendere Green Border un lucido manifesto corale, memore della lezione universalistica di Andrzej Wajda, uno dei maestri della cineasta: ogni male è da condannare e, nel momento in cui si gira un’opera su un presente buio, essa porta già con sé i germi del futuro, dell’avvenire di ogni popolo.
Green Border riflette così sulle due idee di Europa in cui l’etica e le leggi sull’emigrazione funzionano solo in base alla provenienza geografico-culturale, sulla disgregazione etica e politica che ha frantumato la reazionaria Polonia, un paese tuttora diviso dopo la fine del regime illiberale del governo uscente del Pis e l’elezione di Tusk: una “democrazia” in cui il nascente progressismo è in lotta per la depoliticizzazione della magistratura, per bonificare la tv propagandistica di stato e riportare la legge nel solco dello stato di diritto.
Green Border è un’opera a più voci, circondata da un affilato sentore di morte e solitudine che cala dall’alto ma che lascia trapelare spiragli di umanità nella figura di Jan, la guardia di frontiera che ha una crisi di coscienza, di Julia, l’attivista (anche nella vita reale) che si prodiga con tutta se stessa per aiutare le persone lungo il confine, e del gruppo di volontari impegnati in azioni di soccorso umanitario e legislativo, grazie ai video-inchiesta realizzati per creare una rete di cooperazione contro il muro di gomma dei populismi europei.