L’eterno mistero della coscienza e del comportamento umani. Tra i tanti coltivati, il principale interesse di Gary Johnson, ciò che lo rende efficiente nel suo lavoro. Chi è Gary Johnson? Professore universitario presso la University of New Orleans, insegna filosofia e psicologia. Nel tempo libero, arrotonda lo stipendio operando sotto copertura per la polizia. Durante una lezione incentrata sul pensiero di Friedrich Nietzsche, invita gli studenti a riflettere sul significato dell’avverbio pericolosamente, accostato al verbo vivere in un suo famoso aforisma.

Cosa intende dire? Forse, mettersi costantemente in discussione? Giusto. Uscire dalla propria comfort zone? Giusto. Eppure, come commenta un ragazzo in fondo all’aula, indifferente all’accaloramento del docente, facendo notare sia alla sua vicina di banco sia al pubblico in senso stretto una prima contraddizione, egli rimane pur sempre “quello che guida una Civic”.

Questo il fulminante incipit di Hit Man di Richard Linklater, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Dichiaratamente intenzionata a eludere qualsiasi aspettativa, classificazione o facile etichetta, è una pellicola scatenata, divertente e sorprendente in ugual misura, diretta da un maestro incomprensibilmente escluso dalla corsa al Leone d’Oro.

Non ci troviamo di fronte a una versione aggiornata del cult di Peter Weir L’attimo fuggente. Il professor Johnson non è carismatico quanto il collega Keating, allora che cos’è, o meglio, chi è Hit Man? In quali rischi potrebbe mai incorrere quest’uomo innocuo, in grado di distinguere senz’esitazione il picchio pileato dal cugino, il picchio dal becco d’avorio? Potrebbe davvero vivere pericolosamente il padrone di due gatti che portano i nomi di due delle istanze attraverso cui si esplica la personalità – l’Io e l’Es – secondo Sigmund Freud?

A questo punto, interviene il cinema di Linklater, il cui traguardo è probabilmente proprio questo: smettere di capire il mondo come lo si è capito fino a quel momento e avventurarsi verso una forma di comprensione assolutamente nuova. Come testimoniano Boyhood e il trittico composto da Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight.

Tornando a Hit Man, ecco irrompere un formidabile montaggio in cui si susseguono diverse opere che hanno contribuito a cristallizzare nell’immaginario collettivo la figura del sicario su commissione. Una narrazione, o mitologia, seguita fino alle estreme conseguenze da titoli quali Il fuorilegge (Frank Tuttle, 1942), Il delitto perfetto (Alfred Hitchcock, 1954), La farfalla sul mirino (Seijun Suzuki, 1967) e il più recente In Bruges (Martin McDonagh, 2008).

Nondimeno, ridimensionata dalla sarcastica voce narrante dello stesso Johnson, il quale c’informa chiaramente che tutto ciò sia, nella vita reale, solo una fantasia illogica. Ah, l’eterno mistero della coscienza e del comportamento umani. Adesso, riprendendo le parole del protagonista, inizialmente contento del suo abituale ruolo di anonimo precettore, dove vogliono arrivare Linklater e Glen Powell, autore insieme al regista della sceneggiatura?

Hit Man è senza dubbio un’avvincente commedia degli equivoci. Ma oltre a ciò, emerge, nella stessa maniera in cui appaiono, lungo le strade percorse dalla Civic sopramenzionata, i dilemmi e i desideri di Johnson finallora inespressi, man mano che la vicenda s’infittisce, arricchendosi d’ulteriori rivolgimenti, una contemporanea profondità indagatrice dell’ambiguità dell’animo umano.

In passato, la stipula di una polizza sugli infortuni è stata l’origine di un pilastro del noirLa fiamma del peccato (Billy Wilder, 1944), il cui titolo originale, Double Indemnity, allude alla doppia indennità spettante ai beneficiari in caso di morte accidentale dell’assicurato. In passato, il mutismo ha alimentato una ribellione contro la società perseguita da un’attrice teatrale – Persona (Ingmar Bergman, 1966). Oggi, al contrario, una doppia identità non è abbastanza per sopravvivere alle insidie ordite dal mondo. Allo stesso modo, è inutile rifugiarsi nell’immobilità, poiché la vita si manifesta in altri modi, la soluzione non è celarsi.

Qui non è soltanto l’identità a rivestire una capitale importanza nell’evoluzione della storia raccontata in Hit Man, liberamente tratto da un articolo di Skip Hollandsworth apparso sul Texas Monthly nel 2001. Difatti, immersi in un presente frammentato e incerto, Gary Johnson e i suoi compagni di sventura, criminali da strapazzo compresi, individuano soprattutto nel “cambiamento”, nella “trasformazione” la cifra esistenziale, la bussola da utilizzare per farcela. Poiché, ogni giornata richiede la sua specifica performance, la sua maschera.

Prendiamo a titolo esemplificativo Jasper, poliziotto in incognito come Johnson ma, a differenza sua, corrotto e attaccabrighe. Eppure, pur definendosi vittima della vituperata cancel culture, desidera, come chiunque, l’approvazione delle sue azioni da parte dei suoi followers. O Gary, suo malgrado passato dal condividere la solitudine tipica del tecnico con un altro, illustre sodale – l’Harry Caul interpretato da Gene Hackman in La conversazione – all’incarnare le peggiori aspirazioni dell‘umanità, creando un killer diverso, a suo modo seducente, sulla base delle inclinazioni del mandante.

Come se fosse possibile, la mente rivolta ai giorni nostri, stabilire una connessione con il nostro assassino ideale su Tinder. O Madison, intrappolata in una relazione tossica, eppure impegnata a nascondere i suoi scheletri nell’armadio – non per nulla, ricorrerà la parola polizza. Ora, applicando il suddetto discorso all’epoca o ai social network in cui viviamo, non è un esercizio difficile constatare un’affinità tra i trucchi adottati dal superlativo Glen Powell e le Instagram Stories che, una volta scadute, permettono agli utenti di rimodellare la realtà nella puntata successiva.

In passato Edward Yang, nel suo capolavoro Yi Yi - e uno... e due... (2000), ha tentato di rassicurarci, ricordandoci che ogni mattina fosse una “novità”. Oggi, siamo responsabili del diretto azzeramento del nostro stesso presente. A lungo andare, così facendo, sarà sempre più faticoso sia raggiungere la trasparenza nei rapporti interpersonali sia proseguire una semplice conversazione, fino a relegare l’autenticità a motivo di vergogna. In questo senso, forse, alla base della brillante sceneggiatura di Linklater e Powell, si nasconde un’avvertenza.

Una riflessione sul presente e sul meraviglioso intrico di racconti di cui si compone richiede due qualità: una sconfinata ambizione – di nuovo, mettersi in discussione –, da una parte; una sconfinata intelligenza, dall’altra. Non è una missione facile. Tuttavia, tutto diventa possibile con l’aiuto di un attore magnetico, destinato a diventare una star e abilissimo nell’assecondare cambi di direzione narrativi e forze gravitazionali lunari. Che sia coinvolto in una commedia romantica, che sia invischiato in un thriller psicologico, alternandosi continuamente tra luce e ombra, siamo di fronte a un Glen Powell a dir poco memorabile.

Non solo! Tutto diventa possibile grazie allo sguardo di Linklater, capace di orientarsi lucidamente in mezzo all’imprevedibile ginepraio, in cui si uniscono ineluttabilmente l’impulso e la ragione, che chiamiamo vita, senza impelagarsi nelle sue mefitiche pozzanghere.