Tsukamoto torna a volgere il suo sguardo al passato, come spesso accaduto nella più recente fase della sua carriera. Si guarda indietro e torna ad insinuarsi nelle nelle ferite che hanno segnato il Giappone, soffermandosi su una storia minuscola che ancora una volta acquista una valenza universale grazie alla forza dirompente della messa in scena.
Tutto ha inizio in una casa, sudicia e semicarbonizzata dal fuoco della Seconda Guerra Mondiale. All’interno della casa giace una donna che, come le assi di legno entro cui si rifugia, è un residuo dell’inferno bellico; un corpo senz’anima, mercificato in cambio di denaro senza valore, e la cui vitalità si è ormai rassegnata ad un incedere apatico, inerziale. Ma in quella casa, tra qui vetri anneriti, riesce a filtrare un raggio luminoso con l’arrivo quasi simultaneo di un giovane ex militare e un bambino. Anch’essi presentano negli occhi e sulla pelle i segni del trauma appena subìto, e insieme alla donna si stringono nell’intento estremo di rigenerare la serenità carbonizzata dalle bombe incendiarie.
Ed è in questa fase che Tsukamoto sceglie di utilizzare i volti come scorcio sul tormento insanabile che contamina questi superstiti dall’interno. Ombra di fuoco (Hokage, in originale) è una tragica successione di primi piani che testimoniano l’orrore attraversato dai personaggi e lo riversano nello spazio dell’inquadratura, come ad urlare che, anche a conflitto terminato, non ci può essere conciliazione per chi è rimasto ustionato nel profondo. E neppure la seconda parte di questo intensissimo viaggio negli inferi del dolore umano consente di trovare una forma di sollievo. Uscendo dalla casa per immettersi nel mondo in ricostruzione, ci si confronta con una realtà malata, scomposta e abitata da creature irrequiete, mosse dal solo da un insaziabile desiderio di vendetta.
E da autentico drammaturgo del racconto per immagini, Tsukamoto rappresenta questo senso di lacerazione trasfigurando corpi e ambienti, fino a renderli delle raffigurazioni plastiche dell’orrore che pervade l’esistenza umana. Sono loro le ombre infuocate cui si fa riferimento nel titolo, spiriti che ardono nel buio senza possibilità di salvezza. Una raffigurazione angosciante, di una bellezza terribile ma dai contorni sublimi, che rispecchia l’indole di chi l’ha concepita e realizzata.
Giunto al suo quindicesimo lungometraggio, questo monumento della cinematografia nipponica conferma di conservare intatto il proprio spirito inquieto e l’approccio sperimentale alla base della sua sensazionale carriera registica. Ombra di fuoco, si presenta però anche come un’ulteriore prova di come Tsukamoto, in quella che potrebbe essere definita come una nuova fase di maturità, riesca ad arricchire la propria anarchica visione del cinema di elementi nuovi e sorprendenti.
Quindi anche fra le macerie incenerite di questo limbo allucinato può farsi strada un inatteso barlume di tenerezza. Lo sguardo lacrimoso di un bambino che non ha mai conosciuto realmente la felicità, può divenire un filtro attraverso cui anche l’inferno in terra riesce ad assumere, se non un aspetto gradevole, quantomeno una sfumatura più dolce. Una meravigliosa intuizione che consente di rappresentare la violenza e le sue nefaste conseguenza senza sprofondare nell’autocompiacimento o in una morbosa e inerte raffigurazione della sofferenza.
È l’ennesimo miracolo di Tsukamoto, concedere una visione purissima del male e ridurne la portata disforica per renderla un miraggio pervasivo e deterrente. Il cinema come specchio deformante in grado racchiudere il lato più orrido del reale e rifletterlo ammantato di bellezza.