Inviato speciale della United Press, Henry Gris fu l’unico giornalista presente sul set durante gli ultimi giorni di riprese di Luci della ribalta, tra il gennaio e il febbraio del 1952. Oltre a conservare alcuni ritagli stampa tratti dal reportage di Gris, tra le carte del fondo Chaplin della Cineteca di Bologna figura l’articolo integrale, rimasto inedito per oltre settant’anni. La prima parte è stata pubblicata in italiano nel libretto di Limelight – Luci della ribalta, edito dalla Cineteca di Bologna a novembre. Qui pubblichiamo una parte ulteriore.
È vero, il music hall rivive in questo film di Chaplin come non era mai stato mostrato prima, e l’attenzione di Chaplin nel preservare ogni sfumatura della vita del music hall e della sua gente è stupefacente. Ma ancora più stupefacente è la sua memoria, che ha conservato quelle immagini della giovinezza con tanta sorprendente chiarezza. Nel 1910, appena ventunenne, aveva lasciato il music hall per andare in tournée negli Stati Uniti, anche se uno dei suoi numeri aveva un titolo eloquente: Una serata in un music hall inglese.
Che l’amore di Chaplin per questa forma di spettacolo sia sincero e profondo non è una novità per chi sa che i suoi genitori erano artisti di music hall e che Charlie aveva trascorso la primissima infanzia, ancor prima di qualsiasi ricordo conscio, dietro le quinte e ancora più spesso nel cantuccio di qualche squallido camerino dove sua madre lo aveva lasciato. Anche gli anni successivi passarono dietro le quinte, finché suo padre non scomparve in modo tragico e inaspettato lasciando una vedova distrutta incapace di andare avanti senza di lui. Fu così che Charlie e il fratellastro Sydney divennero monelli di Lambeth, ma anche quando furono relegati con la madre in una squallida stanza in cima a tre anguste rampe di scale, al numero 3 di Pownall Terrace, seguirono il nobile mestiere che era stato del capofamiglia.
È un fatto documentato che i due ragazzi avessero l’abitudine di avvicinarsi furtivamente a un suonatore d’organetto: mentre questi girava la manovella sotto gli occhi degli astanti, Charlie eseguiva un balletto per gli spettatori radunatisi e Sidney raccoglieva gli spiccioli. Un’altra fonte di reddito consisteva nel ritagliare bambole di cartone per poi venderle, raggranellando le monete da uno e sei penny con cui pagare Heely il fruttivendolo, Waghorn il macellaio e Ash il salumiere in Chester Street.
Ma alla fine i due ragazzi tornarono al music hall, dove furono accettati come degni figli di un padre stimato. Charlie divenne uno degli Eight Lancashire Lads e da lì iniziò la sua ascesa. Raccontò poi gran parte della sua infanzia, in quel suo modo inimitabile, nel Monello. Se le strade di Lambeth furono la sua scuola elementare e il music hall gli fece da asilo e da scuola secondaria, la compagnia di pantomima di Karno potrebbe essere considerata la sua università. Non sorprende che i legami che aveva stretto con la gente del music hall siano rimasti per lui sacri e indistruttibili.
Ogni frammento di quei ricordi, dice, è stato utilizzato per Luci della ribalta, e il poco che era stato dimenticato è tornato a galla durante la stesura della sceneggiatura. Ma ha presto scoperto che se voleva realizzare una storia del music hall e di un artista sul viale del tramonto doveva elaborare una trama complessa per incorporare nel film tutte le altre cose che voleva raccontare.
[...] A detta di tutti la scena della morte è la più straziante, tanto da provocare fiumi di lacrime nel buio delle sale di tutto il mondo, come è accaduto nella sala di proiezione di Chaplin una sera di non molto tempo fa. Quando si sono accese le luci, Nigel Bruce, l’attore, era seduto al suo posto, smarrito, le guance solcate di lacrime, e borbottava “Adesso ho fatto la figura del cretino”. Poi è uscito di corsa dagli studios ed è salito senza voltarsi indietro su un’auto in attesa. “Si sentirà gratificato” ha detto uno dei presenti a Chaplin.
Come al solito, Chaplin ha risposto, “Lui non fa testo. Nigel è un uomo emotivamente fragile”. Ma quando è giunto il momento si è assicurato che anche Vittorio De Sica, che era venuto a fargli visita, vedesse la scena della morte. De Sica è rimasto immobile per tutto il finale. Il clown sta morendo. Come parte del suo numero disperatamente esilarante è rotolato dal palco nella grancassa dell’orchestra sottostante, in una sorta di crescendo ad absurdum, e si è spezzato la schiena. Il pubblico non lo sapeva. Era un grande. Il grande Calvero.
Quando lo riportano fuori per l’applauso finale, ancora incastrato nella grancassa, scoppia una risata fragorosa. È il colpo di grazia… Calvero!!!! Viene riportato dietro le quinte. I suoi occhi si stanno spegnendo, mormora al dottore “Forse sto morendo, dottore. Ma non so… sono morto tante di quelle volte…”. La giovane ballerina piroetta trionfante verso il palcoscenico e le luci della ribalta, una cantata alla vita eterna. La musica culmina in un maestoso e un lenzuolo impolverato si posa lentamente su un corpo senza vita. Ancor prima che si accendessero le luci De Sica è balzato in piedi, è corso da Chaplin e l’ha abbracciato, mormorando qualcosa in italiano, le lacrime che gli rigavano il volto. Questa volta Chaplin non ha detto nulla.
Per lui Luci della ribalta significa così tanto che insieme al suo clown può esclamare “Sono morto così spesso che non so se questa è la volta buona”. Morirà altre mille morti prima di conoscere tutta la verità su ciò che il mondo pensa di questa sua ultima creatura. Se gli si chiede cosa pensi del film risponderà “Be’, è fantastico, il mio miglior film, una rinascita”, ma aggiungerà fermamente “Pensavo lo stesso di Monsieur Verdoux”. Il fatto, comunque, è che non lo sa. Spera. Si aggrappa a ogni commento, ma ogni commento lo spinge anche a cercare una trappola. L’altro giorno gli hanno detto “Sai che in Inghilterra ti adoreranno” e lui subito ha replicato “Ma in questo paese?”.
Chaplin, l’artista, non nutre forse una grande ammirazione per gli esseri umani – preferisce i gatti, perché, dice, il senso del valore che ha un gatto è acuto e autentico mentre un essere umano può lasciarsi confondere da una smorfia qualsiasi – ma desidera e brama comunque il riconoscimento. Vuole servire l’umanità anticipandone i desideri, cosa che riassume in una massima: “L’anima del profano è l’arte dell’artigiano”. Darebbe ancora qualsiasi cosa per cogliere l’anima del profano.
Ma per riuscirci Chaplin non usa l’inganno. Anzi, insiste sulla logica ferrea delle situazioni, delle frasi, dei gesti, e per estensione di tutta la storia. “Se non è verosimile non vale niente”, dice. Lo stesso vale per l’azione comica. Anche questa è matematicamente corretta se emotivamente giusta. Ecco perché alla fine tutto deve apparire semplice e naturale. “Questo” sospira, “è il banco di prova della vera arte”.
Henry Gris
Traduzione dall’inglese di Manuela Vittorelli