Arrivo a Los Angeles due giorni prima degli Oscar e l’atmosfera è quella di un grande spettacolo blindato. Hollywood Boulevard non è una strada, è una trincea. Barricate metalliche, poliziotti ovunque, homeless che si aggirano tra i marciapiedi come fantasmi e un’aria che sa di festa, ma anche di paura. Il mito di Hollywood è una creatura strana: da lontano, affascina e incanta; da vicino, puzza di erba e hamburger grigliati.

Lo noti subito: tutto è costruito per essere visto solo in televisione. Le star, da lì a poche ore, scenderanno dalle colline, invadendo un quartiere che non è il loro, trasformandolo per qualche ora in una versione a cinque stelle di sé stesso. Parlo con un addetto alla sicurezza che, senza troppa enfasi, mi spiega che le protezioni sono lì perché they”, loro, i VIP, “hanno paura di essere uccisi”. Probabilmente esagera. O forse no. Quello che è certo è che il tappeto rosso è un’entità inaccessibile e invisibile, un miraggio oltre il quale si muovono fantasmi in smoking e Valentino couture. Niente pubblico adorante, niente folla assiepata lungo le transenne come nei festival europei. Solo un fortino chiuso per pochi eletti.

Ma è in questa distanza che si alimenta il mito. Hollywood vive di promesse non mantenute: le stelle senza nome sulla Walk of Fame, i souvenir da cinque dollari con la scritta “Best Father”, gli uomini travestiti da Deadpool che cercano di spillarti qualche moneta. È un’illusione perfetta, costruita con cura.

Un tempo questa era la capitale della produzione cinematografica, oggi è soprattutto la capitale della nostalgia cinematografica. I film si girano in Georgia, nel New Mexico, in Canada. Persino un fenomeno come Barbie (2023) non ha girato qui le sue scene principali. The Last of Us (2023), Killers of the Flower Moon (2023): produzioni mastodontiche, nessuna delle quali ha scelto Los Angeles come base principale. L’industria segue gli incentivi fiscali, spostandosi dove è più conveniente produrre. La California è ancora il luogo dove si decidono i contratti, si firmano gli accordi, ma il set, sempre più spesso, è altrove.

Eppure, nel racconto che Hollywood fa di sé stessa, tutto ruota ancora attorno a qui. Gli Oscar servono proprio a questo: a ricordare al mondo che Hollywood è ancora il centro del cinema, anche se il cinema, nel frattempo, è andato a cercare incentivi fiscali altrove.

Cinema e crisi climatica: Hollywood ne parla davvero?

La cerimonia 2025 si svolge in un contesto in cui Los Angeles è stata recentemente devastata dagli incendi, tra cui il Palisades Fire e l’Eaton Fire, che hanno causato vittime e distruzione. Ma il tema è, ancora una volta, marginale. Ci sono stati discorsi di circostanza, qualche appello accorato, ma poi the show must go on.

Il cinema affronta davvero la crisi climatica? Don’t Look Up (2021) ha provato a farlo, così come The Day After Tomorrow (2004), ma la sensazione è che il sistema sia più abile a parlare di crisi che a farsi carico di una responsabilità concreta. Le major continuano a girare film in luoghi vulnerabili e a mantenere pratiche produttive discutibili. La California brucia ogni anno con una frequenza preoccupante, eppure il cinema sembra affrontare il problema solo quando può trasformarlo in intrattenimento.

Nel frattempo, la vera ridefinizione del sistema non riguarda solo il clima, ma le piattaforme. Lo streaming sta riscrivendo le gerarchie globali, e gli Oscar sono sempre più il termometro di questo cambiamento. Se fino a qualche anno fa Netflix lottava per essere accettato nell’élite di Hollywood, oggi è una delle poche realtà capaci di finanziare film d’autore con ambizioni da Oscar. Apple, Amazon e Netflix stanno vincendo la sfida con gli studios tradizionali, ridisegnando il concetto stesso di produzione e distribuzione.

Eppure, il grande assente è il sistema dei festival. Cannes e Venezia selezionano i film che contano davvero, gli Oscar spesso rincorrono. In questa edizione 2025, molti dei titoli favoriti sono passati prima per la Croisette o il Lido, consolidando una dinamica sempre più evidente: le nuove gerarchie del cinema si decidono nei festival, non più negli uffici di Hollywood.

Oscar 2025: celebrazione o disconnessione dalla realtà?

La notte degli Oscar è un rituale sacro. Visto da fuori, è un evento magnifico: vestiti incredibili, discorsi emozionati (più che emozionanti), il meglio del cinema riunito in una sala. Ma se sei qui, su Hollywood Boulevard, capisci che è una festa costruita per chi è dentro, mentre il resto del mondo può solo sbirciare da lontano.

Non c’è più il glamour anarchico degli anni ‘70, nessuna trasgressione alla Jack Nicholson o ai tempi d’oro di Marlon Brando. È tutto sterilizzato, controllato, perfettamente inquadrato per i social. L’industria oggi è più attenta ai passi falsi che alla celebrazione sincera. C’è sempre il timore di dire la cosa sbagliata, di finire in un vortice mediatico da cui è difficile uscire.

Nel frattempo, il cinema sta cambiando a una velocità impressionante: l’intelligenza artificiale è ormai un tema che inquieta sceneggiatori e attori, lo streaming sta riscrivendo le logiche di produzione e distribuzione, e il box office fatica a riprendersi. Quando la cerimonia finisce, Hollywood Boulevard torna alla sua normalità. Le barricate vengono smontate, i tappeti arrotolati, i senzatetto ritornano a occupare i marciapiedi. L’illusione finisce, fino all’anno prossimo.

Gli Oscar, in fondo, sono un atto di fede. Ogni anno ci dicono che il cinema è vivo, che il mito di Hollywood è più forte che mai. E forse, è proprio per questo che ci crediamo ancora.