Un'orda di maialini invade l'arena di un circo. Tra il pubblico un governatore della Russia zarista guarda divertito la scena, finché un maialino col suo stesso copricapo da ufficiale non si prende il primo piano in un satirico sketch con il clown Anatoli Dourov. Il governatore fugge furioso, mentre il pubblico esalta le gesta del giullare-rivoluzionario, successivamente paragonate, come espressione di libertà, all'ammutinamento del Potemkin.

È nata una stella. Parate e tour mondiali lo attenderanno, ma lui rimane umile e scende in piazza tra il popolo. Anatoli è forse il miglior alter ego di Boris Barnet, regista circense che come il suo protagonista ricerca un legame con lo spettatore partendo dal volgare ma elevandolo ad altezze insperate con i soli mezzi della poesia e di uno sguardo onesto.

In realtà il progetto di Il lottatore e il clown era tutt'altro che personale: fu iniziato infatti dal regista Konstantin Yudin come suo sentito omaggio all'arte popolare, ma, in seguito alla sua precoce scomparsa durante le riprese, la regia venne ereditata all'amico Barnet che trasformò un generico biopic in una giostra di elegiache esibizioni, crasso umorismo, euforia popolana e contrastanti sentimenti.

Quel che interessa Barnet non è tracciare il percorso di un individuo, ma di una relazione, quella tra l'artista e la massa di cui vuol essere un modello positivo. Scompaiono datazioni e connessioni logiche in favore di svolte improvvise, anche tragiche, e un ritmo frenetico che continuamente passa dalla gesta eroica sulla scena al contro-campo di un pubblico sempre più partecipe.

La medesima costruzione dinamica del rapporto artista-massa si ritrova nelle parallele vicende del lottatore Ivan Poddoubny. Lo vediamo nella prima scena scendere da una nave nell'indifferenza generale, salutare un suo amico scaricatore di porto, chiedere indicazioni a un sordo passante. Ingaggiato nel circo, viene introdotto al pubblico come uno di loro. Dalla folla, risponde alla sfida di un lottatore in una scenetta tipica del wrestling. Ma non è solo l'artificio a creare il legame con lo spettatore. Piuttosto è la credibilità di Ivan, l'onestà che lui incarna.

Ivan è l'eroe “positivo”, ma non nella sua accezione “da regime”. Nella sua epica sfida con Raoul Boucher, sporcata dall'olio che il francese si è spalmato su tutto il corpo, preferisce perdere per abbandono piuttosto che proseguire una battaglia con una persona che non stima più, non prima però di essersi fatto beffe del vile avversario lasciando che gli arbitri assaggino l'olio dal robusto petto di Boucher. Se Anatoli è simbolo dell'eversività del poeta, Ivan lo è del suo rigore morale.

Nel mettere in parallelo queste due figure, Barnet conferisce altrettanto rispetto alla lotta greco-romana e più in genere all'arte acrobatica. La camera si fionda nel mezzo dell'azione, magnificando a volte dal basso lo statuario busto dei lottatori, altre invece dall'alto come la vertiginosa inquadratura della trapezista sospesa in aria. In realtà Barnet rimane semplicemente fedele alla grazia che questi corpi sanno già da soli emanare.

Che sia un anonimo viandante, un consumato contadino, un fulgente giullare o un solerte colosso, Barnet non vede differenze perché tutti quanti provengono da una stessa radice umana, da un medesimo impeto terreno, da un condiviso sguardo gentile verso il mondo e i suoi abitanti.