Chiavi che aprono porte serrate, una cassaforte, banconote fruscianti che vengono computate da una macchina conta-soldi, cassette di sicurezza. Siamo in banca, lo spazio privilegiato del calcolo, del seriale, della carta. Non solo quella delle banconote, ma anche la carta della burocrazia che deve attestare ogni procedimento, riconoscere ogni entità. Proprio qui si insinua la prima inquietudine: due firme autografe di, apparentemente, due persone diverse, sono accomunate da uno stile calligrafico talmente simile da insospettire un'impiegata.

Ancora: casseforti che si aprono, banconote infilate in cassette di sicurezza. Stavolta, però, è una rapina. Le mani sono le stesse, quelle di Morán, un altro impiegato della banca. Ha escogitato il piano perfetto: non farsi vedere, lasciare i soldi a un compare, consegnarsi alla polizia e scontare una pena abbreviata per poi godersi il malloppo una volta uscito. Formatosi nel tempio dello scambio, è disposto a dar via un certo quantitativo di tempo per una somma di denaro abbastanza consistente da consentirgli di sottrarsi al giogo che l'opprime: il lavoro.

Il regista Rodrigo Moreno copia consciamente il soggetto di un classico del cinema argentino, Apenas un delincuente di Hugo Fregonese, ma tradisce la premessa volgendosi verso L'Argent, proiettato a un certo punto in una sala cinematografica. Come Bresson, anche Moreno traccia la circolazione seriale di gesti e comportamenti indotti dal dispositivo-denaro, ma qui lo sguardo glaciale verso l'alienante condizione urbana trova una via di fuga, o, meglio, uno scosceso stradello per la campagna.

Il compare Román viene istruito da Morán riguardo a un sicuro nascondiglio per il denaro. È così che i protagonisti e il film stesso deviano dall'ambientazione urbana di Buenos Aires alla rurale provincia di Córdoba. È così che si aprono alla possibilità di un incontro fortuito, di una diversa modalità di scambio, di una variazione del proprio destino. Román incrocia una combriccola di amici, Norma, Morna e Ramón, e impara di nuovo ad assaporare i piccoli diletti dell'amicizia, la chiacchiera, i giochi di parole, la divagazione.

Ramón è un filmmaker impegnato in un'impresa ivensiana, filmare il vento. Ma non meno impervia è la sfida di Moreno: riscoprire nella serialità una forma di trascendenza, quella che neanche Bresson riusciva più a trovare in L'Argent. La proliferazione di anagrammi è il corrispettivo divertito delle frustranti ripetizioni urbane e la fuga per la via pastorale non sembra dettata da una scelta etica ecologica ma grammaticale. La campagna è semplicemente il rovescio linguistico della città, del lavoro, della produzione.

L'arte della divagazione di Moreno sembra divergere sia dalla divagazione neorealista di un Miguel Gomes, così aperto alla meraviglia dell'imprevisto, sia dalla divagazione materialista dei suoi amici del Pampero Cine, sempre pronti alla rottura della quarta parete per ricondurre la divagazione all'interno del loro progetto didattico. Moreno non sa in realtà che farsene della campagna. È solamente interessato a disattivare il comando della produttività, a riscoprire un tempo improduttivo, che è quello proprio del cinema.

Per questo motivo l'unico spazio urbano libero da ogni alienazione, da ogni fatica, è quello del cinema. Román, entrato in sala, cerca prima di tutto, da buon cinefilo, la giusta poltrona, l'angolazione migliore da cui potersi abbandonare alla visione, al ritmo dettato dal tempo filmico, e non più da quello lavorativo. Solo imparando, attraverso il film, a disarticolare i propri gesti lo spettatore sarà capace di riconquistarli cosicché una stretta di mano non servirà più a scambiarsi banconote ma segni d'affetto.