Forse perché si veniva dal famoso biennio rosso del ‘19/’20 culminato con l’occupazione delle fabbriche, forse perché le idee politiche stavano cambiando, con I Figli di nessuno si assiste a uno strano mischione melenso, con protagonista Leda Gys, in cui l’insegnamento di fondo è sostanzialmente: va bene protestare ma continuate a lavorare perché i padroni sono buoni e sapranno ascoltarvi.
La questione politica, esemplificata con la condizione degli operai delle cave di Carrara, si mescola con le travagliate vicende amorose di Luisa (la Gys per l’appunto). Figlia del custode delle cave ella ha una relazione amorosa clandestina con Anselmo, figlio del padrone. Il loro amore è però ostacolato dalla perfidia macchinatrice della madre di lui, la contessa Carani, che tramite una serie di lettere falsificate riesce perfino ad allontanarli. Dalla relazione era però nato un figlio che la contessa riesce a far sparire per poi falsificarne la morte. Ma il bambino non è morto e, ormai cresciuto, diventa, sotto il nome di “Balilla”, capo popolo degli operai e dei trovatelli della cava dove ora anche lui lavora. Nel frattempo Luisa, sconvolta dalla sofferenza, ha preso gli ordini diventando Suor Dolore (sic). Nel finale il piccolo Balilla perderà la vita per tentare inutilmente di evitare l’esplosione di una miccia che potrebbe far morire degli operai. Sul letto di morte avviene il riconoscimento con i genitori e Luisa, fedele al suo nuovo nome, muore di crepacuore.
Vista la marcia su Roma del 1922 e il significato che il termine “balilla” andrà ad acquisire, fa un certo effetto vederlo spiattellato come soprannome di un personaggio. Il riferimento era in realtà ad un giovane genovese che verso la fine del ‘700 aveva dato inizio, secondo la tradizione, ad una rivolta contro gli asburgici diventando poi simbolo del giovane impegnato e ardito. Oggi è ovviamente una parola tabù perché riporta alla mente il corpo giovanile fascista istituito nel 1926.
Tornando alla serie essa ha un difetto, a mio avviso, davvero grande nell’ultima parte. Nel momento in cui viene il personaggio portante della contessa Carani, che con le sue macchinazioni era capace di tenere alta l’attenzione dello spettatore, il film diventa sostanzialmente un inno al dolore di Leda Gys. Si ripetono dunque scene di Suor Dolore che si getta a terra disperata, si muove febbrilmente e/o sgrana gli occhi lasciando andare sé stessa e lo spettatore nella più cupa disperazione. Intanto, passatemi l’ironia, gli operai possono essere felici perché il buon padrone ha accettato di fare i cambiamenti che avevano richiesto e non è andato perso neanche un giorno di lavoro! Termino citando una didascalia esemplificativa: "Dov'è la vita è il lavoro; dov'è il lavoro è la vita, anche quando l'esistenza si logora in uno sforzo immane!"