Mai come in questo caso bisogna iniziare con il vincitore, perché per coloro che l'hanno visto e amato il Leone d'Oro a Povere Creature! è qualcosa più di una semplice vittoria, è il compimento di un destino inevitabile. Ciò che stava accadendo alla prima visione del film era un'esperienza assolutamente unica per i più. Forse alcuni tra gli spettatori erano anche alla prima di The Square a Cannes, certamente nessuno di essi era a Cannes nel 1960 per la presentazione de L'avventura.

Un nuovo classico si rivela al mondo e ci rivela, di nuovo, il mondo. Eppure con il passare dei giorni, la sicurezza e lo strenuo desiderio per la vittoria finale s'associava alla paura di una scelta diversa da parte della giuria, scelte più conservative e politicamente corrette. Così lo spettro di Agnieszka Holland vincitrice tormentava le coscienze cinefile, così vogliose di rivederlo un'altra volta nella serata finale in cui ripropongono i film vincitori.

La pura gioia della vittoria è confluita nell'esperienza estasiante di una seconda visione, così diversa dalla prima, molto più vicina alla visione di uno dei tuoi cult preferiti piuttosto che a un capolavoro rivelatore di nuove possibilità. Ma questo perché Povere Creature! è sia uno scoperchiatore di nuove possibilità filmiche sia un'esperienza esaltante, esilarante, emotivamente estenuante, oltre a essere il film della consacrazione di uno degli autori più importanti della contemporaneità.

Il “secondo posto” (Gran Premio della giuria) di Il male non esiste sembra un perfetto contraltare in tutto e per tutto a Povere Creature!: dallo stile sempre eccessivo e meta-cinematografico di Lanthimos si passa ai delicati piani sequenza, al gioco di silenzi e stasi del film di Hamaguchi; dal nuovo soggetto post-umano, ibridato, creato in laboratorio, incarnato da Emma Stone, alla comunità umana in contatto con la natura del villaggio di Mizubiki; dall'umanità continuamente inventata dalla tecnica all'umanità che spezza in maniera irreparabile un equilibrio con la natura.

Come in Lanthimos, anche in Bonello il rapporto natura/tecnica si affianca a una nuova supremazia del soggetto umano. In La bête, però, è solo disarticolandosi dall'oppressione della tecnica e ritrovando la possibilità di un contatto umano che l'umano riconquista la sua centralità. L'attorialità è una questione di tecnica. E difatti l'attrice interpretata da Léa Seydoux è costretta (forse) dalla tecnica digitale a far fuori il suo amante, a cancellare il suo desiderio. Anche l'aspirante attrice di Finalmente l'alba si trova sedotta dalla tecnica cinematografica e dal potere del stardom a percorrere i bui labirinti di quel Paese delle meraviglie che è la Cinecittà dei tempi d'oro. Conquistare il pubblico attraverso la performance si coniuga al trovare una propria identità, un proprio posto nel mondo.

A sublimare il discorso ci pensa Richard Linklater che con il suo Hit Man avrebbe meritato certamente un posto nel concorso (e di conseguenza il premio alla miglior sceneggiatura). È solo nel momento in cui inizia a interpretare il ruolo di un sicario che un anonimo professore di filosofia riesce sul serio a “vivere pericolosamente” come voleva Nietzsche. Leggere non basta più, è tempo di incarnare la parola, di trasformare la propria identità. Ma cosa c'è di più performativo, di attoriale, che un rapporto di coppia? Così il falso sicario dovrà addestrare la sua amante per convincere il pubblico della sua innocenza e poter vivere felicemente, e pericolosamente, insieme.

Nel bilancio dell'anno scorso si discuteva della centralità della famiglia, anche in quanto condanna. Quest'anno risultano pochi i padri credibili: il “bastardo” di Mads Mikkelsen inventa una famiglia ed è ben disposta a lasciarla crescere nella sua individualità nel film di Nikolaj Arcel; il Lubo di Franz Rogowski padre non riesce mai a esserlo, ma il suo tentativo disperato di ritrovare i suoi figli rimane rilevante.

La nuova centralità dell'individuo sostituisce all'istituzione familiare un conflittuale rapporto di coppia che rimette in discussione semplici manicheismi per quanto riguarda i ruoli di genere: discorso evidente soprattutto nel rapporto tra Enzo Ferrari (padre sì, ma condannato all'invisibilità e al lutto) e la moglie Laura nel film di Michael Mann, nell'intransigente dignità del personaggio interpretato da Penelope Cruz, nella determinata perseveranza del Ferrari di Adam Driver di compiere, malgrado i suoi sforzi in senso contrario, il tragico destino insito nel suo cognome.

Al conflitto inevitabile di Mann si contrappone il tentativo di risoluzione e di equilibrio di Stéphane Brizé in Hors-saison tra due ex amanti che si rivedono dopo 15 anni. Molto più tortuoso invece il rapporto di coppia in Kobieta z... dovendosi ricalibrare in seguito a una transizione di genere. All'ambiguità dei rapporti di genere viene a volte associata l'ambiguità sull'identità del soggetto: così in La bête l'amante potrebbe essere un frustrato misogino pronto ad ammazzare l'amata; in Memory l'uomo (afflitto da demenza) potrebbe essere stato complice di uno stupro in età giovanile (o la donna potrebbe essere una bugiarda seriale); nella Teoria del tutto una sconosciuta conosce qualcosa del protagonista ma non si sa da dove proviene, forse neanche dallo stesso universo.

Estranea, come al solito, a ogni ambiguità invece la Priscilla di Sofia Coppola. Ritorna come in Finalmente l'alba la seduzione della star (qua l'Elvis di Jacob Elordi) ma il personaggio di Cailee Spaeny (inspiegabile Coppa Volpi) risulta l'ennesimo soggetto femminile passivo imprigionato in un castello senza che abbia mezza qualità per riuscire a fuggirne o a esorcizzarne il potere. Certamente preoccupante la centralità che riveste ancora la figura così passiva della vittima: la “strega” Holly viene denigrata per i suoi poteri nel film di Fien Troch; in Adagio ed Enea i giovani protagonisti sono incastrati in un meccanismo manipolato dagli adulti a cui sembra impossibile sfuggire; in Maestro la moglie di Leonard Bernstein è la vittima assoluta e il tumore l'unico elemento drammatico in un idillio di coppia; in Origin ogni società funziona, almeno secondo l'autrice, a partire da un sistema di caste che giustifica l'oppressione. Quantomeno nel Dogman di Besson la passività iniziale del soggetto serve a rafforzare la sua trasformazione, che, come in Kobieta z..., passa anche dal travestimento e dall'ambiguità di genere.

Cosa vi è di più passiva oggi della figura del migrante? Arriviamo quindi ai due titoli più importanti, andati anche a premio, su questa figura: Il confine verde evita l'approccio sensazionalista con un realismo in bianco e nero che sacralizza i migranti e mantiene fuori campo la violenza ma il risultato rimane ancora quello di uno spettacolo della vittima incastrato in meccanismi politici, in procedure istituzionali, in confini solamente simbolici; nettamente più coraggioso allora Matteo Garrone a non sfuggire dalla potenza del sensazionalismo ma a sfruttarlo per aumentare l'identificazione con il suo protagonista e di conseguenza il godimento per la sua trasformazione in capitano coraggioso.

Per quanto riguarda l'identificazione spettatoriale la distanza prodotta dal cronachismo del film della Holland (o dal saggismo di Origin) permette una molto più semplice “pulizia della coscienza” rispetto alla prossimità sensazionalista di Garrone. Alla tensione geografica di Holland e Garrone si contrappongono invece i voli spazio-temporali di Pablo Larraín e Simone Massi che cercano di tracciare nuove connessioni storiche: El Conde attraverso l'invenzione di una nuova mitologia per Pinochet; Invelle invece animando memorie condannate a morte.

Si può infine rintracciare una tendenza neoclassica, un ritorno dichiarato ai grandi autori della classicità: Hitchcock ritorna nel primo capitolo di The Killer di David Fincher con una riproposizione della Finestra sul cortile, nonché nella Teoria del tutto, seppur “mediato” dall'influenza di Lynch; il debutto alla regia di Jack Huston Day of the Fight riprende sia il decadentismo del Città Amara del nonno John sia lo spiritualismo di Toro Scatenato in un grande omaggio ai film classici della boxe; infine, Michael Mann sforna forse il suo film più hawksiano con un Adam Driver mai stato così vicino a John Wayne.

Poco sorprendente invece che i maestri classici si riconfermino tali, nel bene e nel male: Woody Allen, William Friedkin, Frederick Wiseman, Gianikian/Ricci Lucchi, aggiungiamoci anche Wes Anderson e Shin'ya Tsukamoto. Chi ha amato i loro recenti sforzi apprezzerà probabilmente anche questi, chi ne è indifferente continuerà a ignorarli. Difficile invece rimanere indifferenti rispetto a The Palace di Roman Polański e Aggro Dr1ft di Harmony Korine. Due trappole per lo spettatore costretto a subire un'esperienza unica, veri e propri sprechi di tempo se non si accetta il gioco dell'autore.