Il costante senso di minaccia, sospetto e ambiguità e la sottile linea di confine tra voyeur e spiato che caratterizzano il romanzo di Simenon La morte di Belle (1952), fin dal folgorante incipit, non sono facilmente traducibili in immagini. Edouard Molinaro ci aveva provato, con buoni risultati, con Chi ha ucciso Bella Shermann? (1961), scritto da Jean Anouilh e con Jean Desailly come protagonista: un anonimo professore di provincia che diventa il principale sospettato dell’omicidio di Belle, provocante adolescente figlia di un’amica della moglie, che la coppia ospita per permetterle di frequentare il prestigioso liceo cittadino. L’insegnante era il solo presente in casa, oltre la ragazza, la sera dell’assassinio.
Dopo un lungo blocco distributivo per le accuse di abusi sessuali rivolte al regista Benoît Jacquot, arriva in sala questa seconda trasposizione cinematografica che, come la prima, si prende notevoli libertà rispetto al giallo di Simenon, riuscendo, tuttavia, a ricrearne fedelmente l’atmosfera di buona borghesia di provincia e la sottostante oscura visione della vita. Merito soprattutto dei due attori principali, Guillaume Canet e Charlotte Gainsbourg, che offrono un ritratto misuratamente ambiguo della coppia Pierre e Cléa, sempre in sospeso tra il rispettabile anonimato di provincia e l’impulso a seguire i propri desideri.
Il caso Belle Steiner porta l’azione del romanzo, originariamente ambientato nel Connecticut dove Simenon lo scrisse, nella provincia francese dei giorni nostri in cui un caso di omicidio come quello di Belle sale immediatamente alla ribalta social e mediatica, non solo per il ruolo di educatore di Pierre ma anche per il prestigio sociale che Cléa riveste nella comunità.
Rispetto al romanzo e al film di Molinaro, dove Belle rimane una costante presenza, sia fantasmatica attraverso la rievocazione di altri personaggi che fisica attraverso apparizioni nei flashback, Jacquot e i suoi co-sceneggiatori scelgono di puntare più decisamente l’obiettivo sul rapporto di sospetto e complicità tra Pierre e Cléa, lasciando che del cadavere di Belle, una volta portato via dalla scientifica, non rimangano molte altre tracce nella narrazione se non una X gialla sul pavimento della stanza in cui è stata uccisa.
Certo, negli interrogatori a cui Pierre è sottoposto gli viene chiesto di ricostruire il suo rapporto con Belle, ma più che su questo e sulle dinamiche della notte dell’omicidio, la macchina da presa pare attenta alla capacità del protagonista di rassicurare e sedurre con la sua fisicità apparentemente asettica piuttosto che al suo essere convincente nell’offrire prove concrete. Nello schierarsi così apertamente con il punto di vista di Pierre, che definisce “inesistente” il suo rapporto con Belle, il film invita il pubblico a smontarne la versione e a coglierne le ambiguità. E, tuttavia, è quasi impossibile non subirne il fascino.
Mentre Simenon e Molinaro mostravano una provincia dove il senso di comunità aveva ancora basi religiose e la messa domenicale era il rito che decideva la colpevolezza o l’assoluzione più della stessa indagine di polizia, Il caso Belle Steiner è immerso in una società tecnologica e completamente secolarizzata, dove rimane però forte l’ostracismo verso chi è percepito come al di fuori della sua definizione di rispettabilità.
Paradossalmente, pur alterando radicalmente il finale rispetto alla sua fonte letteraria, Il caso di Belle Steiner le rimane fondamentalmente fedele nell’introdurre il sospetto che questa nozione di rispettabilità sia non solo ipocrita, ma profondamente contraddetta dalla realtà che, in modo complice, rifiutiamo di vedere.