In mezzo alle sperimentazioni autoriali, alle decostruzioni del linguaggio narrativo, alla prolissità degli sguardi contemplativi che invadono gli schermi di una manifestazione come la Mostra del cinema di Venezia, dona quasi un senso di conforto trovare ancora un cinema asciutto e lineare come quello di Paul Schrader. L’autore statunitense è nuovamente in concorso ufficiale al Lido con il suo ultimo lavoro Il collezionista di carte (The Card Counter), film lungamente atteso che lo riporta alle consuete atmosfere urbane dopo l’eccellente divagazione rurale del precedente First Reformed – La creazione a rischio.
Tornano quindi le sortite notturne in automobile alla suadente luce delle insegne al neon e ad esse si accompagna l’onnipresente aura di solitudine che costituisce il fil rouge della filmografia di Schrader. Il viaggatore solitario assume questa volta i tratti di un Oscar Isaac granitico, inscalfibile gambler di professione che attraverso la fredda e distaccata logica delle regole del poker tenta di addomesticare un animo tumultuoso e lacerato. C’è un trauma mai totalmente metabolizzato nella vita trascorsa del suo William Tell, una colpa ancora tremendamente dolorosa, non del tutto espiata e forse addirittura insanabile. Qualcosa che giace sepolto ma non sconfitto da uno stile vita routinario e meticoloso, mascherato da un’espressione apatica pronta a disintegrarsi alla prima incrinatura. Perché “tutti possono andare in tilt” e per lui la linea di demarcazione tra la quiete e la perdita del controllo è pericolosamente sottile.
A intaccare la patina di equilibrio arriva il giovane Cirk (Tye Sheridan), figlio di un uomo vittima dello stesso Inferno a cui William ha preso parte come vessatore e in cerca di vendetta dopo il suicidio del padre come atto ultimo delle violenze subite. Nel suo traboccante desiderio di vendetta William vede il possibile viatico per la propria redenzione e l’evento diviene così l’innesco di un rapporto imperscrutabile fino ai suoi risvolti finali, i quali squarciano il velo sui reali intenti del protagonista, le sue macchinazioni celate e rivelano l’affetto che, a modo suo, ha riscoperto grazie al rapporto con il ragazzo.
Sono sentimenti netti e precisi quelli che Schrader pare scolpire nella roccia di questo suo ennesimo apologo sulle conseguenze estreme del rimorso. Dolore, rabbia, vergogna, compassione e amore sono facce distinte e di un'unica figura tridimensionale che rispecchia i vari volti dell’essere umano inquadrandoli come fossero frammenti distinti e non sovrapponibili. Il collezionista di carte raccoglie questi aspetti e li sviscera progressivamente in modo da restituirli ad opera conclusa in tutta la lor limpidezza. In un clima quasi ipnotico, in cui i personaggi vagano senza approdo accompagnati da un’invasiva colonna sonora al synth che rievoca il Cliff Martinez di Drive, l’ira viene così percepita come diretta conseguenza di un pentimento non del tutto compiuto, l’amore come germoglio del seme della speranza.
Raccordi che nascono spontanei in un mondo dipinto a tinte contrastanti dove il male assoluto esiste (personificato dal maggiore John Gordo di Willem Dafoe), ma è tale solo nel terreno arido in cui non attecchisce il pentimento, e il suo opposto sgorga dalla volontà di esporsi e amare nonostante i limiti altrui, come sceglie di fare La Linda (“L.L. come Lucky Lady”) di Tiffany Haddish, dapprima complice in affari e infine unico sostegno di William e ultimo scudo tra il suo istinto autodistruttivo e la salvezza. Ed è su questo particolare che Schrader si sofferma lungamente nell’ultima inquadratura, terminando un viaggio solo apparentemente algido, tanto preciso e composto nella costruzione quanto dirompente e stratificato nelle implicazioni tematiche.
Questo è il modo in cui questo cineasta senza ormai più nulla da dimostrare conferma la propria forza creativa e concepisce una nuova perla filmica che aggiunge ulteriore caratura a una carriera che non cessa di meravigliare.