Dreyfus c’èst moi. Facile, fin troppo facile. Eppure, non appare così difficile da spiegare né da capire. Perché adesso? Se non ora, quando. L’affare Dreyfus e l’affare Polański. È la stessa cosa, secondo il regista. D’altronde come si fa a non leggere la sua vicenda giudiziaria – e, più in generale, l’intera biografia dell’ottantaseienne Polanski – allo specchio del celebre caso? “Finora non ho parlato ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto”, ha promesso, rassegnato e combattivo, nell’intervista rilasciata a Paolo Mereghetti, alludendo soprattutto agli ultimi fatti che lo coinvolgono (una nuova accusa di stupro risalente al 1975). L’ufficiale e la spia, in realtà, è già una dichiarazione. Nella forma di un film, chiaro, che certo non si può utilizzare in un tribunale ma che un tribunale lo rimette in scena. In un certo senso è la quintessenza del film d’autore (riconoscibilità, coerenza, continuità), peraltro da parte di uno che nel corso della carriera ha parafrasato la propria vita in modi sempre inattesi.
E, sì, d’accordo, il film arriva in una fase delicatissima della sua carriera, non solo per quanto concerne i contraccolpi del privato sul lavoro e sull’immagine pubblica, ma anche per il momento storico e politico in cui ci troviamo. Dunque, mettendo da parte le vicende personali benché di dominio pubblico, L’ufficiale e la spia è anche il metronomo che misura il nostro tempo. E allora: il rigurgito antisemita, le fake news che postulano lo stesso caso Dreyfus, il ruolo degli intellettuali incapaci di persuadere il popolo, le tentazioni autoritarie in ambiente militare che subentrano laddove regna il caos, la generale intolleranza dominante nella narrazione dei nazionalisti. Su questi elementi si fonda una rievocazione che non va letta soltanto nella prospettiva di un period drama ma soprattutto in quanto allegoria di un’epoca (contemporanea: ieri come oggi e così anche domani) attraversata dalla non-cultura del sospetto e dell’odio.
“Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul giudizio su di me”, chiede l’imputato in apertura. Dreyfus c’èst moi? Forse sì, forse no. Polanski è troppo intelligente per cadere nella trappola della sovrapposizione. Non è un’autobiografia – né tantomeno un’agiografia di se stesso – mediata attraverso una biografia altrui. Sembra piuttosto, a partire da un fatto emblematico, una meditazione personale, con tutti gli effetti collaterali del caso, su una questione decisiva del presente: imparare a fare i conti con un’opinione pubblica plasmata dal potere più forte della verità che risulta scomoda per il potere stesso. Poi, chiaro, se vogliamo vedere solo il Polanski privato, d’accordo, ma la situazione forse è un po’ meno ovvia.
Sceneggiatore assieme a Robert Harris (già al suo fianco nel grandioso e altrettanto metaforico L’uomo nell’ombra), Polanski continua a scontrarsi con gli spettri di un passato personale nella misura in cui è anche collettivo, rinfocolando il comune dolore di quegli ebrei tormentati dall’idea di essere sopravvissuti all’Olocausto. E la dimensione privata trova un senso nella sua rielaborazione, qui nella forma di una lectio magistralis sul cinema storico. Dopo alcune prove più “chiuse” in macchine teatrali, Polański non si caccia mai nei pericoli del polpettone, unendo il rigore didattico di matrice rosselliniana con il controllo di una sontuosa messinscena. Un film d’autore nel senso più totale del termine, quasi incredibile per lucidità e disciplina: un’operazione chirurgica, un colpo di spada, una resa dei conti. La masterclass di un maestro ma anche l’editoriale dell’intellettuale, l’autodifesa dell’imputato, l’arringa del difensore. E se il vero portaparola dell’autore fosse Picquart? E se fossero l’ambiguità e l’audacia, il cinismo e l’orgoglio dell’ufficiale le coordinate per interpretare quel Polański che per facilità abbiamo riconosciuto nella spia?