Gli elementi più potenti e sconvolgenti di Di toit milen (I mulini della morte) di Hanuŝ Berger, cortometraggio "educativo" del 1946 che fu tra i primi lavori tedeschi a entrare nei campi di concentramento e guardare in faccia i risultati dell'Olocausto, non sono i cadaveri ammassati, i corpi scheletrici, le fosse comuni o i bambini vittime delle sperimentazioni scientifiche. Non che queste evidenze dell'orrore, ovviamente, lascino indifferenti, ma ciò che più colpisce e turba oggi sono i volti dei cittadini tedeschi. Il film infatti, dopo aver rappresentato ciò che era accaduto tra quelle mura, rafforzando la durezza delle immagini esplicite con una voce narrante altrettanto dura, accusatoria e precisa, racconta il momento in cui le forze alleate decisero di portare i cittadini di Weimar in visita al vicino campo di concentramento di Buchenwald.
I volti dell'andata sembravano quelli di chi stava andando ad un pic nic; la comunità in cammino verso il campo di concentramento pareva dirigersi verso la festa patronale o la terrazza da cui ammirare i fuochi d'artificio. Al ritorno, invece, risaltano nei volti dei cittadini tedeschi l'angoscia, lo smarrimento, la sorpresa e il senso di colpa; così come non mancano sguardi di una malcelata soddisfazione e illuminati da lampi di odio. Quindi, volti sconvolti e impauriti dall'evidenza di qualcosa che non si sapeva essere così enorme, e probabilmente anche dalla sensazione di esserne stati in qualche modo complici, e volti invece che in qualche modo ribadiscono il sostegno morale del popolo tedesco da cui, inevitabilmente, il nazismo ha trovato linfa vitale.
Il breve documentario, realizzato con le immagini girate dalle truppe alleate entrate nei campi di concentramento, del resto si poneva l'evidente obiettivo di sbattere la realtà in faccia al popolo tedesco, in qualche modo di farlo sbattere contro il muro del passato ancora fresco. Di creare le giusta consapevolezza di quello che è stato e di evidenziare le responsabilità, anche se e quando indirette e inconsapevoli. La stessa voce narrante sottolinea, senza filtri, come l'olocausto sia stato anche un affare di mercato di cui hanno beneficiato vari settori della popolazione. Racconta, per esempio, di come i resti delle vittime delle camere a gas diventassero fertilizzanti venduti ai contadini, e in generale di come l'indotto di questo sterminio andasse ben oltre i confini di Auschwitz, Mauthausen e di tutti gli altri meno celebri luoghi di sterminio.
Di toit milen diventa così, in un certo senso, un'opera che si rivolge alla psiche, all'interiorità della nazione, che vuole evitare il pericolo del rimosso collettivo, creando, senza particolari filtri e senza ammorbidire, quei sensi di colpa e quei rimossi terrificanti ma necessari. Probabilmente il momento più efficace in questo senso è proprio quello in cui lo spettatore, il cittadino tedesco qualunque, poteva guardarsi in faccia. Sono proprio le sequenze in cui il grande schermo, con i volti sconvolti degli abitanti di Weimar, diventava uno specchio. Un'operazione che convive con l'approccio tangenziale, più distaccato e filtrato, con cui il passato recente viene rielaborato e metaforizzato in molti film presentati nella rassegna dedicata al cinema della Trizona. Due approcci complementari e paralleli, entrambi inevitabili in un cinema che, come la nazione, stava cercando nuove strade e allo stesso tempo doveva rielaborare una tragedia collettiva.
Nel 1948 Lang is der veg (Lunga è la strada) di Herbert Fredersdorf e Marek Goldstein ( un reduce dei campi di concentramento ) è invece una delle primissime opere che cercano un approccio di finzione all'Olocausto. È una storia semplicissima di fuga, scomparse e ritrovamenti, in cui un nucleo famigliare si ricompone e in buona parte ambientata nei campi per gli sfollati che, negli anni della Trizona, accoglievano gli ebrei scampati e quelli ormai privi di una patria. Il film inizia con le dure e drammatiche immagini di repertorio che documentano le atrocità alternate alle immagini della vicenda, per poi lasciare spazio alle difficoltà della ricerca e alla speranza necessaria. È un'opera che innanzitutto ha le particolarità di apparire oggi come rivolto principalmente ad un pubblico ebraico – il film fu girato in yiddish e in polacco – e di come la sua realizzazione in qualche modo sia stata influenzata dalle coeve vicende del "dibattito" sulla nascita di Israele, nato quando il film era da poco uscito nelle sale e che continuamente riecheggia in Lunga è la strada. Inoltre, l'interesse, che in qualche modo mette in secondo piano le reali qualità dell'opera, nasce proprio dalla convivenza tra l'urgenza di denunciare le atrocità dell'Olocausto con chiarezza, e la necessità della speranza e della reazione. Un'opera quindi, in un certo senso, a metà del guado tra riconoscimento e ricordo del passato e ricerca e costruzione di un futuro, e per questo emblematica del cinema tedesco occidentale del secondo dopoguerra.