Delphine Seyrig nelle vesti della draculea Élisabeth Báthory attraversa una notturna Marienbad in La vestale di Satana (1971). Il luciferino Cassavius di Orson Welles sul suo letto di morte invoca la luce in Malpertuis (1971). Il cinema vampiresco di Harry Kümel succhia il sangue dai maestri del meta-modernismo per dare nuova linfa a intramontabili divinità, a favole e racconti dell'orrore.
Le infinite scale della magione di Malpertuis, le sempiterne architetture dell'hotel di La vestale di Satana sono i cupi spazi circoscritti infestati dal diavolo da cui non sembra esserci via d'uscita. Novello Nietzsche, Kümel proclama la morte di Dio e rinchiudendo lo spettatore stesso all'interno di inquadrature seriali vampirizza l'immagine-tempo.
Élisabeth Báthory ritorna dopo quarant'anni nello stesso hotel. Il portiere, allora fattorino, la riconosce rimanendo sconvolto dalla visione. Una serie di omicidi di splendide donzelle a Bruges insospettisce un poliziotto ora in pensione che già aveva indagato su un caso simile qualche decennio prima. Sono testimoni oculari di una presenza immutata, un'eroica lotta contro la morte vinta a colpi di letali baci saffici.
A farne le spese una giovane coppia di neo-sposini il cui matrimonio sembra fin dall'inizio destinato al celere consumo e all'infelicità. Il bacio di Báthory libera la bella Valérie dalla condizione di moglie-copertina e ci proietta a gran velocità verso un avvenire lesbico, minacciato solo da ciò che vi è di più (o meglio, troppo) umano, la luce.
È la luce che si sta spegnendo per le divinità intrappolate dentro il castello di Malpertuis, figure ormai dimenticate dal mondo, che possono ormai solo che vivere come maschere di un teatro surreale manovrate dal regista-alchimista Cassavius. Questi sparge per tutta la dimora (e il film) trappole per topi-spettatori, tra cui la propria prematura morte la quale, piuttosto che portare in trionfo il tempo, vincola ulteriormente i malcapitati residenti ad attendere all'infinito un'oscura eredità.
Come Báthory, anche Cassavius sperimenta segretamente una nuova razza lavorando sull'eccesso di umanità di queste invidiose e servili marionette. Ancora un uomo deve sopportare i malefici del diavolo, il giovane marinaio Yann che come Alice si perde inseguendo un bianconiglio, in questo caso la sorella Nancy, e finisce per ritrovarsi anche lui confinato nella dimora di famiglia.
Anche in Malpertuis, il trionfo del divino coincide con una liberazione femminile: è, infatti, solo attraverso gli occhi della cugina Euryale che Yann (e lo spettatore) risolve l'enigma della magione e può finalmente uscire dall'eterno loop in cui era incastrato. Non prima però di ripiombare nuovamente in una realtà ancora più folle e circolare di immagini ripetute.
Ma è proprio il paradossale dramma degli alchemisti meta-modernisti come Welles, Resnais e Kümel: viaggiare sino al termine della notte dell'umano e lì nella terra maggiormente disertata dal divino, abitata non più da sostanze ma da copie, erigere un monumento al desiderio di raccontare le eterne lotte tra la luce e il buio, tra l'amore e la morte.